La Resistenza come assalto al cielo e invenzione di una società diversa
Mi domando se la Resistenza sarebbe stata ricordata, e se gli ormai tantissimi nati molto dopo il 1945 ne avrebbero avuto qualche cognizione, se ogni anno, da più di 70, non fosse stata puntualmente commemorata dalle associazioni partigiane e dalle istituzioni antifasciste. Mi pongo questo interrogativo ovvio per non lasciare spazio alcuno a chi – ce ne sono parecchi – considera gli anniversari stanche e retoriche ripetizioni. Sono invece importantissimi perché si tratta di momenti preziosi della vita di ciascuno: quando ci si sente parte di una memoria collettiva. Occasioni sempre più rare, perché di collettivo nelle nostre vite più recenti ce ne è sempre di meno.
Altro è il discorso sul come si usa la memoria, oggi che di partigiani ancora vivi ce ne sono pochissimi e perciò il succo che si trae dal loro vissuto è meno scontato e sempre più arbitrario. Sarebbe bello, per esempio, fare una volta un grande serio sondaggio, articolato per settori di opinione ma anche per generazione, per capire meglio cosa evoca in ciascuno questa data. Non solo per soddisfare una curiosità, ma perché ne potrebbe scaturire un interessante dibattito politico, fra posizioni anche molto diversificate pur emerse da un medesimo schieramento politico e sociale. Se si facesse un simile confronto spererei comunque non si finisse col fare l’elenco dei valori da riaffermare.
Non è così, ma solo se ci si sforza di tradurli in pratica oggi e qui, che si fa un passo avanti. Da quando i protagonisti ufficiali della politica sembrano volersi identificare a partire dai valori, che sono certo importanti ma non tanto se poi non diventano programmi e impegni rispettati, l’identità di ciascuno si è annebbiata e si rischia che appaiano tutti uguali.
A me piacerebbe che da questo 25 aprile partisse una riflessione, comune ma non per questo omogenea, su quello che considero l’aspetto più singolare e straordinario della Resistenza italiana: il coraggio dell’invenzione di una società totalmente diversa che nessuno sapeva ancora come dovesse essere, perché i giovani partigiani non avevano avuto modo di sperimentare una democrazia in nessuna sua forma. La futura società per cui rischiavano la vita era dunque per loro un progetto tutto da verificare ma per il quale si era pronti a dare l’assalto al cielo.
Quel che tuttora più mi colpisce e mi entusiasma della Resistenza è la spregiudicatezza della sfida che, senza il salvagente di stati preesistenti e dei loro garanti, come era altrove in Europa, drappelli di ragazze e ragazzi provenienti da regioni diverse e che la guerra aveva casualmente aggregato su questa o quella montagna, hanno ingaggiato non per recuperare un passato conosciuto ma per conquistare un sistema del tutto sconosciuto che aveva però un pregio fantastico ed era perciò un obiettivo entusiasmante : si trattava di un mondo inesplorato ma sognato.
Proprio di questo coraggio oggi avremmo bisogno. Perché siamo arrivati ad una crisi, di cui la pandemia ha costituito solo l’allarme, così profonda per tanti aspetti tutti però intrecciati, che l’ipotesi di riparare, per farlo ancora vivacchiare, il modello attuale, nonostante qualche sicurezza che ancora garantisce, non interessa più a nessuno. O perlomeno non i più giovani.
Voglio dire che dobbiamo ritrovare quello stesso coraggio dei partigiani perché oggi è indispensabile per ripensare tutto, a cominciare dal nostro modello democratico.
Da quando nessuno sa più dove vengono realmente prese le decisioni che contano – certamente non nel Parlamento nazionale ma neppure in quello europeo visto che in realtà a dettar legge sono gli accordi del tutto privati fra i grandi gruppi multinazionali finanziari e/o industriali e i loro algoritmi – questa democrazia risulta a tal punto svuotata da apparire quasi inservibile.
Il rischio è che ci si arrenda difronte a questa evidenza, ma è anche quello di diventare puramente ripetitivi, illudendosi cha sia possibile rivivere il tempo passato, con un parlamento davvero rappresentativo della società che lo ha eletto, ad essa collegato da partiti capaci di fornire partecipazione consapevole.
Oggi dobbiamo essere in grado di garantire la nostra irripetibile Costituzione ma al tempo stesso di armarci della fantasia e della buona volontà necessarie a costruire nuove e più dirette forme di espressione politica: autogestione collettiva di pezzi almeno della nostra società, per ridurre al minimo il ricorso ad affidamenti che non danno più fiducia: lo stato, il mercato, ma anche referendum imbelli che liquidano enormi questioni con un semplice sì o no.
No, non sto rievocando il mito anarchico, ma certo invocando nuovi intrecci fra democrazia delegata e diretta; sto semplicemente invitando a impegnarsi a inventare nuove forme consolidate di democrazia organizzata da far crescere sul territorio, in cui sia possibile impegnarsi per gestire insieme i beni e i servizi nuovi che bisognerà approntare se si vuole davvero imboccare la transizione a un nuovo modo di produrre e consumare.
Non per chiudersi nella propria comunità, ma come punto di forza per poter con autonomia «tener aperto lo sguardo sull’altrove» , come saggiamente consiglia papa Francesco a chi rischia di chiudersi nel proprio «locale.
È già su questo terreno che operano una quantità di gruppi cresciuti in questi ultimi anni e che sebbene ancora frammentati attestano l’esistenza di nuove risorse che tuttavia si esprimono in forme diverse da quelle che noi, nella nostra adolescenza, abbiamo incontrato crescendo.
Solo ripartendo da queste nuove esperienze possiamo pensare a un mondo nuovo, e smetterla di piagnucolare su quello che non c’è più. So che ci sarebbe bisogno anche dei partiti di cui siamo nostalgici, perché sono necessari a capire meglio dove si vuole arrivare a lungo termine.
E però non li ricostruiremo mettendo insieme i ricordi, o rintracciando parentele, ma a partire dalle sollecitazioni che ci verranno da una società arricchita da nuove pratiche democratiche. I tanti giovani che in questi ultimi anni hanno sentito il bisogno di iscriversi all’ANPI potrebbero essere un canale prezioso per intercettare questa nuova disponibilità a impegnarsi trasmettendo l’esempio della sfida lanciata nel 1943.
* Fonte: Luciana Castellina , il manifesto
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