by Eleonora Martini * | 30 Aprile 2021 10:33
Chi ha ordinato, programmato e sceneggiato il video[1] fatto circolare in rete da mercoledì sera, come ultima azione di depistaggio sull’omicidio di Giulio Regeni, forse non è del tutto consapevole che agli occhi degli italiani, ormai disabituati ai regimi totalitari da parecchi anni e ad una certa propaganda naive, quella “ricostruzione” dei fatti mostra soltanto l’interesse da parte egiziana a insabbiare sotto una coltre di ricatti, più o meno velati, la verità e la ricerca della giustizia. E soprattutto a tentare di spacciare il regime di Al-Sisi come una moderna democrazia.
The story of Regeni, che su YouTube ieri sera conteggiava circa 100 mila visualizzazioni, arriva proprio alla vigilia dell’udienza preliminare per i quattro agenti dei servizi segreti egiziani (il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif) per i quali la procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio con differenti capi d’imputazione. Udienza che però ieri è stata rinviata al 25 maggio per impedimento (Covid) di uno dei difensori d’ufficio degli indagati.
IL VIDEO – IN ARABO con i sottotitoli in inglese e in un italiano pessimo e sgrammaticato, martellante colonna sonora da thriller anni ’80, attore molto somigliante a Giulio Regeni – ripropone vecchie tesi, già avanzate molte volte dall’omicidio del 2016 ad oggi, e già ampiamente smascherate. La principale è che il ricercatore non fosse tale («le sue presunte ricerche») ma piuttosto una spia dei Fratelli Musulmani, «abituato a scomparire in modo misterioso» come «nell’ottobre 2015 in Turchia». E che chi lo ha ucciso («ignoti») avesse tra gli altri scopi quello di incrinare i buoni rapporti tra Italia ed Egitto, e magari boicottare progetti «importanti» come quelli dell’Eni e altri interessi economici che i due Paesi hanno in comune.
Nel filmato vengono intervistati l’avvocato Ismail, il capo sindacalista degli ambulanti che ha denunciato Regeni, Adballah, il generale Elmakzahy, ex assistente del ministro dell’Interno egiziano, l’ex ambasciatore del Cairo a Roma Rashid e, da parte italiana, l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta, il senatore di Fi Maurizio Gasparri, l’ex capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica militare Leonardo Tricarico e il giornalista Fulvio Grimaldi. È quest’ultimo, quello di sicuro meno «mal interpretato»: gli altri intervistati italiani si sono difesi parlando di «strumentalizzazioni», o da parte degli autori del video o da parte di chi ieri ha alzato la voce contro l’«ignobile operazione».
FIN DAI PRIMI MINUTI del “documentario” Grimaldi infatti spiega che l’Università di Cambridge, per la quale Regeni stava svolgendo la ricerca, è stata «fondata da un ebreo tedesco, Kurt Hahn» che l’ha forgiata «un po’ sul tipo gioventù nazista», come «ha fatto con altre scuole che ha chiamato del “Mondo unito”, tutte indirizzate a formare agenti dei servizi segreti». E così via di questo tenore.
Tricarico e Gasparri supportano invece gli «infiniti punti interrogativi» che ci sarebbero nel rapporto tra i Fratelli Musulmani e la tutor di Regeni a Cambridge, Maha Abdel Rahman. «Non si è indagato abbastanza» su quel fronte, sostiene il generale italiano che chiosa: «Se fosse confermata la relazione con i Fratelli musulmani, c’è da giustificare la reazione di Al-Sisi». Mentre Gasparri si schiera direttamente contro i magistrati italiani (proprio lui), annunciando la richiesta di «un’indagine parlamentare sulla Procura di Roma».
Nel video infatti il generale Elmakrahy insinua che il modo di lavorare dei pm italiani non sia all’altezza della situazione, e spiega che mentre la procura egiziana «conduce direttamente le indagini», quella italiana «delega la polizia». Secondo il funzionario egiziano, la procura cairota ha inviato 28 richieste di documentazione a Roma e se ne è viste rifiutare 12, mentre il pm Colaiocco, titolare del fascicolo, «ha inviato 60 richieste di documentazione e il Cairo ha risposto a 44 di esse». Soprattutto – sottolinea – quello che l’Egitto vorrebbe sapere e che l’Italia non gli concede di sapere sono i nomi dei testimoni oculari che hanno riferito di aver visto Regeni mentre veniva torturato. Dal canto suo, la ministra Trenta si spinge un po’ troppo in là quando dice: «Noi abbiamo fiducia che l’Egitto sia un Paese che rispetta i diritti umani e che stia lavorando per assicurare verità e giustizia».
«SONO STATA CONTATTATA dal sig. Mahmoud Abd Hamid che si è presentato come rappresentante dell’emittente araba Al Arabiya in Italia – ha spiegato ieri su Fb Trenta – per un film documentario sui rapporti diplomatici ed economici fra Italia ed Egitto. Se avessi saputo che la mia intervista sarebbe finita in un documentario che considero vergognoso e inaccettabile, naturalmente non avrei mai dato il mio consenso».
Anche Tricarico prende le distanze dal video: «Le mie parole, che sottoscrivo punto per punto, sono state rese funzionali alle tesi del filmato che io non condivido». L’aviatore ha riferito di essere stato «intervistato per circa un’ora, un mese fa, da un giornalista egiziano che si è presentato come Khalifa Mohamed e ha detto di lavorare per Al Jazeera e Al Arabiya. Ho sostenuto che la politica estera di un Paese deve essere la sintesi degli interessi nazionali e non essere ostaggio di un singolo caso, per quanto doloroso».
Gasparri invece arriva a minacciare querela contro Erasmo Palazzotto, presidente della Commissione d’inchiesta sulla morte di Regeni, che ha bollato il filmato come «l’ennesimo inaccettabile tentativo di depistaggio» e ha giudicato «molto grave che esponenti italiani, politici e militari, si siano prestati a questa operazione ignobile».
* Fonte: Eleonora Martini, il manifesto[2]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2021/04/italia-egitto-compare-the-story-of-regeni-un-video-depistaggio/
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