Myanmar. La giunta golpista continua nella repressione stragista: almeno 38 morti
La terza giornata di protesta dopo la domenica di sangue del 28 febbraio si trasforma, nel pomeriggio di ieri, in un mercoledì di sangue che supera per numeri quella maledetta bloody sunday. Così che quei numeri che rimbalzano per tutta la giornata – otto, nove, ventidue – salgono, dicono le nostre fonti, ad almeno 24 vittime accertate. In serata diventano – scrive il quotidiano birmano Irrawaddy – 28, per la Bbc 38.
Ma, ci dicono ancora, potrebbe essere un bilancio molto per difetto. Non potendo confermare il numero dei morti la macabra aritmetica si ferma ma fa intanto lievitare a oltre 60 le vittime a un mese dal colpo di stato del primo febbraio. Una tattica stragista.
L’epicentro delle violenze di ieri si accende nel Nord Okkalapa (Myauk Okkalapa) – quartiere orientale di Yangon – che vede scontri per tutta la giornata fino che attorno alle 5 e mezzo del pomeriggio parte il fuoco con armi automatiche, finora sembra mai usate. È una mattanza: Voice of Myanmar conta 13 vittime e almeno una cinquantina di feriti.
Incidenti sono segnalati un po’ ovunque nell’ex capitale: nella downtown, al Railway Bridge, a Kyoegone (Insein) a ancora a Tamwe, residenza del presidente in carcere Win Myant. Ma tutto il Paese brucia: Monywa, Mandalay, Myingyan, Magway, Myawaddy (c’è chi fa notare questa ricorrenza della M riconducibile a qualche disegno esoterico, un’ossessione di Tatmadaw, l’esercito birmano).
La protesta però continua: ieri, beffa delle beffe, a incrociare le braccia sono oltre cento lavoratori dei giornali – tra cui il Global New Light of Myanmar in inglese – e dell’agenzia stampa di Stato Myanmar News Agency. Succede mentre il vice ambasciatore del Myanmar all’Onu, U Tin Maung Naing, si è dimesso dopo che il regime militare gli aveva imposto di sostituire il suo numero 1, U Kyaw Moe Tun, dimissionato dalla giunta per un discorso contro il golpe al Palazzo di Vetro mentre alzava le tre dita, simbolo della protesta.
I generali birmani non sembrano comunque aver ascoltato i moniti, seppur blandi, appena arrivati dall’Asean, l’associazione regionale di 10 Stati del Sudest di cui il Myanmar fa parte. Il comunicato congiunto del 2 marzo, nel politichese più diplomatico possibile, non diceva praticamente nulla ma singole dichiarazioni di diversi ministri dopo la riunione virtuale di ieri confermavano invece che l’Asean, se non proprio con una sola voce, chiede ai militari non solo di limitare l’uso della forza ma di liberare i leader politici imprigionati e ripristinare lo status quo.
Equilibrismo politico: un comunicato sbiadito ma singole prese di posizione dure; singole ma avallate dal summit tra capi della diplomazia come escamotage per chiarire che questa volta il golpe non è solo un «affare interno». Niente sanzioni e niente espulsione, forse una missione di mediazione ma comunque il sostegno all’inviato Onu.
Il più esplicito, a sorpresa, è Vivian Balakrishnan, a capo della diplomazia – solitamente cauta – di Singapore: fermare subito la violenza e ricerca immediata di un compromesso negoziato…per «una soluzione politica pacifica a lungo termine che includa un ritorno al percorso democratico»: il sollecito forte è al «rilascio immediato del presidente Win Myint, di Aung San Suu Kyi e degli altri detenuti politici», con la specifica chiarissima che la Città Stato «sostiene fermamente la visita dell’inviato speciale Onu in Myanmar» che Naypyidaw deve facilitare «il prima possibile».
Sorpresa anche per le Filippine che, dopo aver inizialmente bollato il dossier birmano come affare interno, alla vigilia del summit cambiano rotta: il ministro Teodoro Locsin ha detto che la politica di non ingerenza negli affari interni dei membri «non è un’approvazione globale o un tacito consenso per compiere torti» e che Manila chiede il rilascio immediato di Aung San Suu Kyi e un «completo ritorno» allo «stato di cose preesistente». Si associa Giacarta anche se con parole più prudenti.
Se il comunicato all’acqua di rose salva chi non si vuole esporre (Laos, Vietnam e Cambogia, regimi a partito unico) e i più prudenti – Malaysia e soprattutto Thailandia – il messaggio ai generali ora è chiaro. Ma per ora le verdi uniformi birmane sembrano non volerlo ascoltare.
* Fonte: Emanuele Giordana, il manifesto
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