8 marzo 2020. Il Dossier sulla strage al carcere Sant’Anna

by Comitato Verità e giustizia per i morti del Sant’Anna | 12 Marzo 2021 9:04

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L’8 marzo del 2020 è una domenica, l’aria è primaverile come la stagione alle porte che  nessuno si godrà. Il fumo che si alza da quella terra di nessuno, da quel limbo appena oltre la  tangenziale proprio dietro alla Sacca, è nero e carico di presagi. Il carcere di Sant’Anna è in  rivolta. Una tragedia annunciata. Una tragedia che si compirà sotto gli occhi di tutti e nel più  vile tra i silenzi, quello che solo l’opportunismo più provinciale è in grado di partorire. E la città  di Modena, nonostante tutta la sua ostentata propensione internazionale votata al turismo e all’  “eccellenza” manifatturiera, è esattamente ciò: provincia. Sono giorni particolari, la pandemia  è agli inizi, le scuole sono già chiuse da due settimane in alcune regioni, la Lombardia e altre  14 province stanno per diventare “zona arancione” e la sera del 9 marzo il presidente del  consiglio Giuseppe Conte annuncerà il lockdown. Nei mesi successivi, da più parti, verrà tirata  in ballo anche la democrazia, o meglio la sua assenza, per via delle forti limitazioni imposte  alla libertà personale inflitte a colpi di decreti. Nell’immaginario medio italiano il cittadino verrà  confinato agli “arresti domiciliari”, un infelicissimo paragone che si svilupperà parallelamente al  più totale disinteresse per le sorti delle persone realmente private della libertà. Visti in questo  senso, tutti quei grandi discorsi riguardanti la “democrazia ferita” avrebbero potuto trovare  effettivamente assonanza proprio in quanto stava accadendo quei primi giorni di marzo  all’interno di quelle celle, quasi come avvisaglie di incubi passati tornati a declinarsi  brutalmente nelle istituzioni totali del presente. C’è chi ha sostenuto che quanto avvenuto a  marzo nelle carceri sia una sorta di “rimosso”, di delitto fondativo del “nuovo ordine”  pandemico in Italia e che, come tale, debba rimanere in qualche modo segreto, celato dietro a  muri invalicabili. E per dare un’idea delle dimensioni di questo “rimosso” basta dire che, a  distanza di un anno, non è ancora chiaro e definitivo il numero delle vittime della strage che si  stava compiendo in quei giorni nelle carceri italiane. Sulla stampa si leggono ancora cifre  altalenanti, a volte i morti sono 13, a volte 14, a seconda di chi scrive e del testo che si cita  perché di informazioni ufficiali su questa storia ne sono uscite davvero poche. Nove a Modena, uno o due a Bologna e tre o quattro a Rieti. I nomi stessi delle vittime sono emersi solo grazie  all’impegno di volontari, associazioni e giornalisti che li hanno raccolti e pubblicati perché dalle  stanze ermetiche del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e del Ministero di  Giustizia non era uscito nulla di ufficiale. Anche questi piccoli dettagli dovrebbero già essere  eloquenti e far riflettere, oltre che definire i contorni di quel “rimosso” che è materia principale  di questo dossier.

La pandemia è globale e nelle carceri di tutto il mondo si accendono rivolte legate agli effetti  devastanti che il Covid-19 potrebbe avere su prigioni sovraffollate e con scarsissima vigilanza  sanitaria. Migliaia di detenuti in tutto il pianeta vengono rilasciati per evitare un’inutile strage, anche paesi come la Turchia (90.000) e l’Iran (70.000) lo fanno. In Italia, invece, l’ipotesi non  è nemmeno presa in considerazione e quando cominciano a circolare le voci dei primi contagi  all’interno delle carceri, nei penitenziari italiani si comincia a protestare. Le prime rimostranze  per la gestione dell’epidemia avvengono proprio dentro a quelle celle e in due soli giorni  produrranno 13 o 14 morti. Sui media del Paese, al contrario, va affermandosi un coro unanime  che imbocca l’italiano medio sulla suggestione di una “regia esterna” dietro alla rivolta  (anarchici o mafiosi a seconda della testata) come se quanto avviene contemporaneamente nel  resto del mondo non avesse alcuna rilevanza. In fin dei conti, anche l’Italia stessa, nonostante il  suo “ingegno” e le sue “eccellenze” “riconosciute in tutto il mondo”, è un Paese provinciale, il  quale non ha esitato un solo istante a mostrare il “pugno duro” e a far scattare rappresaglie  verso persone, private della libertà, che in fin dei conti domandavano soltanto di non essere  abbandonate al virus e attenzioni sanitarie. L’8 marzo 2020, fuori dal carcere di Sant’Anna, i  familiari dei detenuti accorsi per capire cosa stesse succedendo, dopo aver visto una fumana  nera salire in cielo e macchiare l’orizzonte della città, spiegavano e ripetevano proprio questo    Perché è vero, era in corso una rivolta, una dura rivolta da parte della popolazione carceraria, ma quasi nessuno ha riportato le motivazioni che stavano alla base di quanto stava accadendo, eppure la piccola folla che si era precipitata angosciata nel piazzale antistante al Sant’Anna le  conosceva perfettamente. Chiunque poteva dirti che la sospensione dei colloqui con i familiari  per via del Covid, e l’interruzione di tutte le attività con educatori e psicologi potevano essere  interpretate facilmente come la classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso: “Nessuno, in  questa situazione di emergenza, si è reso conto di quanto questi provvedimenti abbiano pesato  sulla condizione già difficilissima vissuta dai detenuti”1

 

Sono le voci dei parenti dei detenuti presenti nel piazzale a raccontare le condizioni dei propri  cari rinchiusi all’interno del penitenziario. Solo tre giorni prima della rivolta, infatti, il 5 marzo, il ministero della Giustizia aveva proibito le visite a causa del coronavirus mentre il giorno  successivo, il 6 marzo, veniva trovato il primo positivo tra le fila della polizia penitenziaria. Ma  quella domenica pomeriggio il tempo scorre in una maniera differente, in un clima surreale    Come documenterà il giorno successivo il Resto del Carlino, fuori dal Sant’Anna si ammassano i  reparti antisommossa arrivati da Bologna e Milano, poi i vigili del fuoco con 8 automezzi, la  polizia municipale, la protezione civile e i militari, in un dispiegamento di forze imponente ma  che non è in grado di rispondere nemmeno una volta alle legittime domande dei familiari  accorsi fuori dall’istituto e che si stanno interrogando sullo stato di salute dei loro cari. Solo  verso le 17 un graduato della polizia penitenziaria proverà a rassicurare le famiglie: “La  situazione si sta stabilizzando, non ci sono feriti. Il fumo che vedete proviene dal tetto e non  dalle celle che non sono state intaccate durante la rivolta. Dovete stare calmi però. Se urlate  rischiate di fomentare ancora di più i detenuti presenti in struttura”.

 

Eppure i familiari sono arrabbiati, non si fidano, e la loro sfiducia non si placa di certo verso  sera quando arrivano di decine di pullman della polizia penitenziaria per trasferire i detenuti e  spargerli fra le carceri della penisola. Nemmeno la rabbia si placa, soprattutto quando i  pullman si mettono a sfrecciare a tutta velocità fra la folla (una donna accusa anche un malore  dopo aver rischiato di essere investita) o quando i familiari osservano impotenti la scena del  pestaggio di alcuni detenuti già ammanettati prima di essere caricati sui veicoli per chissà quale  destinazione. Una vista, questa, ben presto coperta da altri autobus posizionati abilmente di  fronte all’ingresso, in modo tale da impedire ogni sguardo ai testimoni assiepati all’esterno. Il  giorno successivo, sulla stampa cittadina, si potrà leggere invece di “eroi”, di “agenti feriti” e di  “fobia” del virus. Ma, soprattutto, si potrà già leggere la causa di quei decessi che di lì a poche  ore sarebbero saliti fino alla tragica cifra di nove morti. Quella “overdose” che, nei giorni  successivi, si ripeterà, come un mantra di telegiornale in telegiornale, di articolo in articolo, di  bocca in bocca, diventando così verità già acquisita e percepita ancora prima di qualsiasi  parola ufficiale. Parole ufficiali che arriveranno tre giorni dopo, l’11 marzo, col ministro della  Giustizia, Alfonso Bonafede che riferirà della situazione in aula semivuota del Senato:  Permettetemi innanzitutto di ringraziare la Polizia penitenziaria e tutto il personale  dell’amministrazione penitenziaria (Applausi), perché ancora una volta stanno dimostrando  professionalità, senso dello Stato e coraggio nell’affrontare, mettendo a rischio la propria  incolumità, situazioni molto difficili e tese, in cui ciò che fa la differenza è spesso la capacità di  mantenere i nervi saldi, la lucidità e l’equilibrio nell’intuire e scegliere in pochi istanti la linea di  azione migliore per riportare tutto alla legalità. Mi piace sottolineare che in tutti i casi più gravi  le istituzioni si sono dimostrate compatte: magistrati, prefetti, questori e tutte le Forze dell’ordine  sono intervenuti senza esitare, rendendo ancora più determinato il volto dello Stato di fronte  agli atti delinquenziali che si stavano consumando. […] Il bilancio complessivo di queste rivolte  è di oltre 40 feriti della polizia penitenziaria, a cui va tutta la mia vicinanza e l’augurio di  pronta guarigione, e purtroppo di 12 morti tra i detenuti, per cause che, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i  disordini. Dodici morti dunque, “per lo più riconducibili all’abuso di sostanze” con quella  formula “per lo più”, che già allora, a tre giorni dalla strage, lasciava poco spazio ai dubbi. E in città le cose non vanno affatto meglio. Nessuno parla, nemmeno l’ultimo dei consiglieri  comunali oserà rompere la cappa di silenzio. Solo verso la serata di lunedì (9 marzo), quando  il conto delle vittime era già salito a sei, il sindaco di Modena, Giancarlo Muzzarelli, si degnerà  di commentare l’accaduto, esprimendo un’immediata solidarietà alle Forze dell’ordine e  ammonendo lapidario: “chi fa polemiche non dimostra senso dello Stato” . In 2 città a regnare è  soltanto un silenzio dei più eloquenti. Dai giornali si apprende che cinque detenuti sono morti a  Modena, mentre per altri quattro l’agonia si sarebbe protratta per ore, durante il loro  trasferimento nelle carceri di Parma, Alessandria, Trento ed Ascoli. Ghazi Hadidi, 35 anni, morirà all’altezza di Verona sulla strada per Trento, Ouarrad Abdellah 34 anni, ad  Alessandria, gli restavano da scontare meno di due anni per reati legati al piccolo spaccio, Artur Iuzu 31 anni, era invece diretto a Parma e in attesa del primo grado di giudizio e  Salvatore Cuono Piscitelli, di 40 anni, morto ad Ascoli che sarebbe stato scarcerato in agosto.

 

Nel carcere di Modena invece perdono la vita Ariel Ahmadi di 36 anni, padre di una  ragazzina di 12 e che sarebbe tornato in libertà nel gennaio del 2022, Agrebi Slim, quarantenne, anch’esso con una figlia, Hafedh Chouchane, 36 anni a pochi giorni dalla  scarcerazione, Ben Mesmia Lofti, di 40 anni e Alì Bakili cinquataduenne. I nomi delle vittime  però si sapranno solamente 10 giorni dopo, pubblicati sul Corriere della Sera dal giornalista  Luigi Ferrarella, mentre le poche informazioni a riguardo saranno raccolte dalla giornalista  Lorenza Pleuteri in un articolo apparso su giustiziami.it il 3 aprile e in un approfondimento di  Giuliano Foschini e Fabio Tonacci uscito sul Venerdì di Repubblica lo stesso giorno. Dalla  stampa locale si apprende solo che dei primi si occuperanno le Procure delle città nelle quali  sono stati constatati i decessi mentre per i cinque di Modena si parla di “overdose da  stupefacenti” per due detenuti, di cause ancora da chiarire per un terzo ritrovato cianotico e di  un generico “attacco cardiaco” per un quarto, mentre il quinto non viene nemmeno  menzionato. Sempre dalle pagine dei giornali, il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio, annuncia che “l’intenzione della Procura è di fare immediatamente luce sui decessi;  successivamente si indagherà anche sulla rivolta e i danni che ha provocato.”3

 

Si indagherà per  omicidio colposo «contro ignoti» al fine di avviare le prime autopsie sui cadaveri. In città, invece, prosegue il silenzio più assordante rotto solo dall’invettiva del sindaco Muzzarelli  infastidito da dei volantini e da delle scritte contro il carcere apparsi sui muri di alcuni quartieri  che avrebbero intaccato, a suo dire, il “decoro e dignità alla città”. Dopotutto l’urgenza del  primo cittadino è chiara e dichiarata, bisogna ripristinare il carcere (semidistrutto dalle proteste)  al più presto “per una questione di sicurezza per la città e per il territorio.”

Se la città è silente, la Regione Emilia-Romagna (che detiene 10 delle 13-14 vittime totali) non è da meno, nonostante abbia competenza in materia di salute, di trattamento delle tossicodipendenze, di  custodia del metadone e di sanità penitenziaria. A rompere la cappa di silenzio, compatta  come un fascio littorio sarà, inaspettatamente, l’11 marzo la Camera penale di Modena  Carl’Alberto Perroux. Con un comunicato che denunciava la grave assenza della politica, l’associazione sindacale degli avvocati segnalerà: Le uniche informazioni che abbiamo ottenuto  su quei fatti sono quelle fornite dalla Polizia Penitenziaria, giacché l’Autorità Giudiziaria  (requirente e di sorveglianza) non ha inteso divulgare notizie di dettaglio sullo svolgersi degli  accertamenti. I morti nelle rivolte del carcere di Modena sono saliti a 9, un numero enorme che  lascia sgomenti, ancor di più per il fatto che risulta difficile comprendere come molti di loro  siano deceduti nel corso della traduzione o presso l’istituto di destinazione 4. Anche il Gruppo  Carcere-Città, prenderà parola, il giorno dopo, con un comunicato stampa ad hoc che non  lascia spazio ai dubbi sulle condizioni della struttura alla vigilia della pandemia: I dati sono  allarmanti: con una capienza regolamentare di 369 posti, al 29 febbraio 2020 erano presenti a  Modena 562 detenuti e, al 6 febbraio, quattro funzionari della professionalità giuridicopedagogica  e una sola esperta ex art. 80 O.P. per 38 ore mensili. A questo si sommano le  responsabilità di chi ostacola la fruizione di misure alternative al carcere per chi ne ha i  requisiti5. Un sussulto di dignità civile in un mare di silenzi e indifferenza. Poi più nulla finché, ai  primi di aprile, lontano da Modena, stando a quello che si scoprirà successivamente grazie ad  una telefonata registrata e consegnata a giornali e mezzi d’informazione6, 300 agenti della  penitenziaria, provenienti dall’esterno entrano “a volto coperto dal casco, da foulard o  mascherine, rendendone difficile l’identificazione video” nelle celle del carcere di Santa Maria  Capua Vetere per una “perquisizione straordinaria” che sfocerà in “episodi di inaudita  violenza; calci, pugni, manganellate e abusi di ogni tipo, perfino su un detenuto disabile”7

 

Testimonianze e denunce che sarebbero confermate dai video agli atti dell’inchiesta i quali  mostrerebbero immagini di reclusi inginocchiati, trascinati e picchiati da più poliziotti  contemporaneamente. Anche in questo caso dal ministero faranno sapere solamente che gli  agenti coinvolti rimarranno al loro posto nonostante 44 indagati mentre, in una nota del 6  aprile, il sottosegretario Vittorio Ferraresi commenterà che si era trattato solamente “di una  doverosa azione di ripristino della legalità” confermando ancora una volta il “pugno duro” del  ministero guidato da Alfonso Bonafede. Anche per il carcere di Foggia, dal quale i diversi  detenuti sono evasi, si alzano voci di pestaggi e atti di violenza molto simili a quelli che si  sarebbero verificati nell carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, con centinaia di agenti  col volto coperto che avrebbero fatto irruzione nelle celle colpendo con pugni e manganelli8

Modena, Rieti, Santa Maria Capua Vetere, Foggia; ma perché è proprio nelle prigioni di  provincia che è scoppiato in forme più virulente l’incendio? Che rapporto c’era tra queste città e  le loro prigioni, tecnologiche o vetuste che siano? La rimozione totale? E Modena, in  particolare: c’entrano qualcosa le fiamme di Sant’Anna col fatto che ormai da un paio d’anni in  questa città si registra un numero inquietante di denunce e rinvii a giudizio per centinaia di  cittadini accusati di vertenze sindacali e sociali? Esiste una misteriosa relazione tra la  degenerazione del clima “dentro” e “fuori”, ad là e al di qua del filo spinato? Cittadini e  detenuti, hanno respirato la stessa aria, sia pur in condizioni drammaticamente diverse?Queste  le domande che, mesi dopo, lo scrittore Giovanni Iozzoli proverà a porre sulla rivista online  Carmilla9. A maggio, invece, la Procura di Modena farà sapere che in base alle risultanze  autoptiche i decessi di cinque dei nove morti del carcere di Modena (tutti quelli trovati in loco)  erano tutti attribuibili a overdose di metadone e psicofarmaci. Punto. In contemporanea i  riflettori mediatici sono tutti rivolti invece al finto scoop di Repubblica sui “boss mafiosi” ai  domiciliari che ovviamente non fa altro che accendere il pulsante dell’indignazione rispetto ad  un possibile provvedimento “svuota carceri” legato alla pandemia. Ad agosto, a squarciare la  cortina fumogena del silenzio su quanto accaduto nel carcere di Sant’Anna, sarà la  pubblicazione di due lettere di detenuti – testimoni (uscite senza firma, su richiesta degli  estensori) che raccontano di pestaggi avvenuti nel carcere di Modena durante la rivolta e di  altre botte durante e dopo il transito in altre città. Le missive vengono rese note dall’agenzia  Agi e dal blog giustiziami.it. Le due giornaliste che le hanno ricevute e pubblicate saranno poi  sentite dalla squadra Mobile, come persone informate sui fatti. Il testo racconta abusi e  vessazioni, come per il carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Ci hanno messo in una saletta  dove non c’erano le telecamere. Amatavano (ammazzavano?, ndr) la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno  colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha  dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta.” “Sasà è stato  trascinato fino alla sua cella e buttato dentro come un sacco di patate. Era debole, forse aveva  preso qualcosa. E anche qua – dice – veniva la squadra. Come aprivi bocca per chiedere  qualcosa, prendevi delle botte. Ci mettevano con la faccia al muro. Venivano a picchiare col  passamontagna, per non far riconoscere le facce”. Anche il secondo testimone conferma che  Sasà stava malissimo, che sul bus era stato picchiato e che quando è arrivato ad Ascoli non  riusciva a camminare. “Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato.” Passano altri  mesi e il silenzio intorno alle 13/14 vittime di marzo prosegue la sua azione. Nel Paese non ci si  interroga affatto su quelle morti né tantomeno sulle condizioni in cui versano i detenuti nelle  carceri italiane mentre in città, per certi versi, va pure peggio, in molti ignorano persino che sia  successo qualcosa. Per questo motivo, proprio per cercare di accendere i riflettori su quanto  successo in città solo 9 mesi prima, il 7 novembre in Piazza Grande a Modena viene  organizzata dal Consiglio Popolare una prima iniziativa pubblica intitolata “Dietro le sbarre:  testimonianze e riflessioni sul carcere”. In quella giornata verrà prima letta una lettera dal  carcere di Torino di Dana Lauriola, attivista NoTav, condannata a due anni di reclusione solo  per aver parlato al megafono durante una manifestazione nella quale non si verificarono  incidenti, successivamente si ascolteranno in collegamento telefonico Manuela D’Alessandro e  Lorenza Pleuteri, le due giornaliste che per prime avevano pubblicato le lettere anonime  denuncianti i pestaggi. Infine si ascolterà la testimonianza di un ex detenuto del carcere di  Modena, il quale ribadirà come la richiesta principale dei detenuti, in quel tragico 8 marzo, fosse una richiesta sanitaria: Modena era per me un concentrato di violenza da parte dello  Stato sulla pelle dei detenuti. Soltanto che a marzo è successo qualcosa che andava ben oltre    […] La sanità era un punto fermo delle loro richieste, era uno dei messaggi della rivolta. Questo  è un punto fondamentale da dire e da far comprendere alle persone: la sanità. Può essere che  qualche detenuto abbia abusato di farmaci, non dico di no, ma è normale quando educhi le  persone per anni alla tossicodipendenza. Ovvio, che cosa cerca una persona che sta male e  che ha accesso ai farmaci, che gli somministrano ogni giorno, più volte al giorno senza  problemi, come fossero biberon? Può darsi che possa essere così. Così come sappiamo che i  carabinieri sono andati sul parapetto del carcere e hanno sparato, questa è la realtà dei fatti.

 

Quando non si sa chi di preciso della polizia penitenziaria o dei carabinieri sono entrati dentro, il primo che hanno avuto per le mani lo hanno ammazzato di botte davanti a tutti e hanno detto  “Adesso vi facciamo questo”. C’è gente a cui sono arrivati i proiettili vicino alla testa ed è solo  per miracolo che non hanno preso il piombo in testa o in altre parti del corpo10. Il mese  successivo, a dicembre, gli abusi già denunciati nelle lettere trovano conferme. Cinque ragazzi  firmano un esposto destinato alla procura generale di Ancona. Anche loro parlano di  aggressioni fisiche, violenze, spari, torture e di assistenza negata a Salvatore Piscitelli (Sasà)  una delle nove vittime di Modena, morto, a detta loro, nel carcere di Ascoli. I cinque  denuncianti confermano quanto già raccontato sostanzialmente ad agosto tramite lettera dagli  altri due altri detenuti, ossia di pestaggi, di abusi e di mancati soccorsi. Il 10 dicembre tutti e  cinque vengono riportati nel carcere di Modena per essere interrogati dai pm una settimana  dopo. A Modena vengono “accolti” in regime d’isolamento sanitario, in celle con vetri rotti (a  dicembre) e coperte bagnate. Dopo gli interrogatori tutti e cinque vengono nuovamente  trasferiti in posti diversi. Questa volta escono un paio di articoli sulla stampa locale e c’è  qualche risonanza a livello nazionale, ma poco più.

 

Il Dap non commenta, la Procura di Modena, sempre per bocca del procuratore Di Giorgio, si  limita a un neutro “si faranno i necessari approfondimenti” e ribadisce, ancora una volta, che le  autopsie (delle quali non si sa ufficialmente ancora nulla, tranne che per il ragazzo della Dozza  di Bologna) confermerebbero la morte per overdose anche per Piscitelli come per le altre 8, 12  o 13 vittime. All’inizio del 2021 Repubblica ricapitola le notizie uscite in un dossier  multimediale, arricchito con documenti inediti, con stralci delle relazioni di servizio interni e con  le pagine di una delle 13 autopsie effettuate, più gli originali delle lettere-denuncia estive. Un  paio di settimane dopo anche la trasmissione televisiva Report si occupa di quanto accaduto nel  carcere di Modena nove mesi prima. In questo caso viene mandata in onda la testimonianza di  un detenuto che afferma di non aver partecipato alla rivolta, di essere rimasto in cella e di aver  trattato direttamente con l’ispettore l’uscita pacifica di tutti i reclusi del suo settore che stavano  soffocando dal fumo, ma di aver ugualmente “preso così tante manganellate che il sangue  schizzava sulle divise e sui caschi dei poliziotti.”11. Ma la trasmissione della Rai, intrecciando i  racconti, oltre a disegnare uno scenario altamente inquietante, viene a conoscenza di come ad  operare a volto coperto all’interno delle carceri, in quelle che presumibilmente erano  considerate azioni punitive, sia stato un nuovo reparto creato ad hoc dopo le rivolte, il “GIR –  Gruppo di Intervento Rapido”12. Poco tempo dopo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, il  procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, ignorando volutamente non solo le  denunce dei detenuti ma anche le inchieste ancora in corso, dichiara: “La Procura ha accertato  che i nove detenuti sono deceduti per l’assunzione di stanze stupefacenti sottratte dalla  farmacia e non per violenze esercitate nei loro confronti.” Questo dossier 13 raccoglie ciò che  pubblicamente è stato detto e scritto sulla strage dell’8 marzo nel carcere di Modena oltre ad  alcuni approfondimenti e a tutte le doverose domande che questa terribile vicenda porta  inevitabilmente con sé. Purtroppo a un anno di distanza, la situazione nelle carceri italiane  sembra non avere prodotto alcuna riflessione. Non solo la possibilità di un’amnistia è ipotesi  davvero remota ma sembra che non si riesca ad agire per contenere i contagi nemmeno con gli  strumenti a disposizione, ricorrendo ai domiciliari, alle pene alternative e alla scarcerazione  anticipiata di chi è ormai prossimo alla fine della pena. Fattori anche questi nient’affatto  marginali nel misurare la qualità di una democrazia. Perché quanto accaduto nel carcere di  Modena e il silenzio che l’ha circondato sono un messaggio che non può essere ignorato tanto  facilmente. Perché se è vero che lo Stato in quei giorni, ha picchiato, sparato, torturato o  omesso anche solo di soccorrere persone detenute considerandole alla stregua della monnezza  o dei tossici buoni a nulla (nell’indifferenza totale dell’opinione pubblica, bisogna dirlo) non è  detto che un domani non sia pronto ad allargare l’utilizzo di quei metodi anche ad altre fette di  società

Un po’ come ci ricorda quel famosissimo sermone di Martin Niemöller:

Prima vennero…

 

Note

1 infoaut.org

2 senzaquartiere.org

3 senzaquartiere.org

4 facebook.com/camerapenalemo

5 buonacondotta.it

6 iene.mediaset.it

7 ilriformista.it

8 ildubbio.news

9 carmillaonline.com

10 facebook.com/scioperoitalpizza

11 fb Report

12 rai.it

13 modenaindiretta.it

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