Rifugiati politici. Al tribunale di Roma si processa la solidarietà
Quando Abramo (nome di fantasia) riceve la richiesta di aiuto da due giovani donne in fuga sta lavorando nei campi come raccoglitore di angurie, in un paese a lui straniero, dove da poco ha trovato a sua volta rifugio e dove si guadagna da vivere per una paga irrisoria e «al nero». La scena non risale alle rivolte contro la schiavitù di un secolo e mezzo fa, ma è tratta dalle intercettazioni dell’inchiesta «Agaish» (ospiti in lingua tigrina), sulla base della quale il 23 febbraio si aprirà a Roma il processo in Corte di Appello per 4 imputati eritrei, tutti rifugiati politici, condannati in primo grado per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
PER AVER RISPOSTO a quella richiesta di aiuto, acquistando a proprie spese i biglietti che hanno consentito alle donne di raggiungere il Nord d’Italia, Abramo ha già scontato oltre 18 mesi di carcere e affrontato un processo in cui il pubblico ministero aveva chiesto in primo grado 14 anni di reclusione.
A evocare la schiavitù non sono tanto le immagini della piantagione, dell’asservimento della manodopera allo sfruttamento estremo di un nascente capitalismo predatorio e estrattivo, delle donne in fuga da un regime, quanto la circostanza che rendere illegale la fuga e trattare da criminale chi la rendeva possibile fosse essenziale a perpetuare il sistema schiavistico.
È lo stesso filo rosso che collega il processo che si aprirà a Roma il 23 febbraio, quelli che vedono coinvolte le Ong per i salvataggi in mare e la disobbedienza di Carola Rackete contro le leggi mortifere del controllo dei confini: ora come allora, colpire la solidarietà è funzionale a dissuadere la fuga, a disperdere la reti di relazioni che rendono possibile la libertà di movimento attraverso i confini, anche quando questa è volta a salvarsi e a salvare vite. Nel processo di primo grado, le imputazioni per il reato associativo che collegavano la presunta cellula romana al trafficante di uomini Mered Medhaine sono cadute di fronte alle contestazioni puntuali di un collegio difensivo composto da tutte avvocate.
D’altro canto, non senza clamore mediatico, l’uomo incarcerato a Palermo come Mered Medhaine era stato oggetto di uno scambio di persona e liberato senza troppe scuse dopo una lunga carcerazione. Ciononostante, non sono caduti i processi satellite che avevano preso avvio dall’inchiesta e, anzi, altri ne sono scaturiti negli anni.
NELL’IMPIANTO ACCUSATORIO, il traffico di esseri umani è configurato come una sorta di impresa logistica che consente, seguendo un’unica trama, la mobilità dei migranti dal Corno d’Africa al Nord d’Europa; ogni nodo è collegato, non da rapporti materiali, ma dalla calotta interpretativa del reato associativo, senza distinzione tra chi gestisce i lager libici e chi offre ospitalità o aiuto.
È una distinzione che, però, sanno fare bene i migranti, come ha mostrato il processo di primo grado contro i rifugiati eritrei, dove le presunte persone offese dal reato, a loro volta riconosciute come rifugiati, hanno testimoniato a favore degli imputati che li avevano aiutati nel viaggio.
Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, lo stesso che è contestato tra gli altri capi di imputazione a Carola Rackete, così come ai capitani e capi missione delle Ong che effettuano salvataggi in mare, è una bestia a più corna. Il traffico (smuggling, in inglese) è perseguibile anche in assenza dello scopo di lucro, richiesto però, nella misura dell’ingiusto vantaggio, per il favoreggiamento della permanenza sul territorio.
MENTRE L’IMPUTAZIONE di «scafisti» per chi effettua i soccorsi in mare può essere fatta cadere grazie alle scriminanti dell’adempimento di un dovere e dello stato di necessità, per il favoreggiamento della permanenza sul territorio opera una clausola di salvaguardia umanitaria che raramente viene riconosciuta a favore degli stranieri che prestano soccorso ai connazionali, evidentemente assegnati a un universo morale in cui la solidarietà è esclusa sulla base dell’appartenenza razziale.
Le indagini e il processo che hanno portato alle condanne in primo grado dei quattro eritrei romani non hanno accertato alcun vantaggio economico nell’aiuto prestato ai connazionali, ma hanno comunque configurato le condotte come «altri atti» volti a favorire l’attraversamento illegale dei confini interni all’Europa. Ancora una volta, aiutare qualcuno ad acquistare un biglietto ferroviario o offrirgli da dormire è, insomma, considerato il nodo di una rete logistica che in quanto tale va smantellata.
Le modifiche ai decreti Salvini del governo Conte bis hanno ridotto le sanzioni pecuniarie per lo Ong, ma non hanno modificato il quadro penale su cui si basano i processi.
Rispetto al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, il Tribunale di Bologna ha recentemente sollevato un’eccezione di legittimità costituzionale, contestando le pene sproporzionate previste dalla fattispecie aggravata dell’utilizzo di documenti falsi.
LA PAROLA SUGLI ASPETTI TECNICI del reato spetta ora alla Corte Costituzionale, e si vedrà se dimostrerà la stessa apertura che, nel 2018, ha mostrato il Consiglio Costituzionale francese nella pronuncia scaturita dal celebre caso di Cedric Herrou, scriminando i comportamenti di solidarietà e riconoscendo a ciascuno la libertà di portare aiuto agli altri.
Si tratta, nondimeno, di una battaglia che non può essere lasciata solo alle aule dei tribunali, ai collegi difensivi dei casi celebri o alle avvocate che, con meno clamore, a Roma come a Palermo, difendono chi si ritrova imputato per aver guidato il gommone in cambio di uno sconto sul prezzo della fuga o, ancora più spesso, per la stessa contropartita si presta a denunciarsi come scafista. Proprio come contro la schiavitù, quella da combattere è una battaglia per l’abolizionismo.
NON QUELLO ASTRATTO delle frontiere, ma quello concreto dei dispositivi repressivi che impediscono la libertà di movimento e la fuga attraverso le frontiere. Quello contro gli apparati di controllo che hanno trasformato i confini in siti di morte, così come contro le fattispecie penali che criminalizzano la solidarietà.
Alla chiamata per combatterla, negli ultimi due anni, le Ong del soccorso in mare hanno risposto radicalizzando la loro azione politica, senza farsi intimidire dalla retorica che le voleva affiancare ai trafficanti e, anzi, decostruendola anche grazie agli atti di disobbedienza.
Proprio il coraggio di questa rivendicazione radicale ha trovato sostegno in tante e tanti attivisti e nella società. Lo stesso sostegno è necessario per decostruire la retorica dei trafficanti che, dietro l’alibi di una stessa fattispecie penale, non distingue tra chi sfrutta e approfitta e chi presta sostegno e aiuto nella fuga.
DURANTE IL PROCESSO di primo grado, la solidarietà che è stata costruita attorno alla comunità eritrea romana di Ponte Mamolo, portata da associazioni locali, da studenti e da qualche attivista, ha trovato spazio solo sulle pagine del quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung.
A rilanciarla assieme a noi è oggi Mediterranea nell’ambito della rete transnazionale del soccorso in mare. È la stessa “flotta civile” che ha costruito una campagna di solidarietà attorno ai giovani naufraghi accusati a Malta di aver dirottato il mercantile El Hiblu per impedire che riportasse in Libia oltre 100 migranti soccorsi in mare.
Fare nostra la richiesta di giustizia per gli eritrei del processo romano è fondamentale per riconoscere che quella per il salvataggio in mare e quella contro la criminalizzazione della solidarietà dei migranti sono parte di una stessa battaglia per la libertà.
Lucia Gennari, Mediterranea Saving Humans; Enrica Rigo, Clinica Legale Immigrazione Università Roma Tre
* Fonte: il manifesto
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