Regno Unito. Sentenza storica: «Gli autisti di Uber sono lavoratori dipendenti»
Ecco come la decisione dei giudici inglesi può cambiare l’economia delle piattaforme digitale. A cominciare dai ciclofattorini delle consegne a domicilio (rider) che, anche in Italia rivendicano lo status di dipendenti
La Corte suprema del Regno Unito ha stabilito ieri che gli autisti di Uber devono essere trattati come lavoratori dipendenti e non come autonomi. La sentenza (leggi qui il testo) è definitiva e la piattaforma digitale americana che permette di collegare autisti privati ai passeggeri in tragitti urbani in concorrenza con i taxi – il cosiddetto, in inglese, «ride hailing» – non potrà più fare ricorso. Questo è un momento storico per la storia recente del capitalismo digitale.
Quanto scritto nella sentenza di 42 pagine significa che migliaia di autisti hanno diritto al salario minimo e al pagamento delle ferie. In ogni caso, ciò costerà a Uber una compensazione pari a 12 mila sterline per almeno duemila conducenti concentrati in particolare nella città di Londra. Al di là della Gran Bretagna, dove Uber è particolarmente sviluppato, la decisione può avere conseguenze più ampie sull’economia «dei lavoretti» (la «gig-economy») in tutti i paesi dove stanno proliferando a vista d’occhio le piattaforme digitali. La sentenza britannica ha sancito in questi casi, senza alcuna ambiguità, l’esistenza di un «rapporto gerarchico» tra un datore di lavoro e un subordinato. Una volta stabilita l’esistenza di tale rapporto è allora necessaria «una protezione legale» dal potere dell’azienda che controlla il lavoro o i servizi svolti dall’individuo sottoposto alla sua disciplina.
«Maggiore è il grado di tale controllo, più forte è il caso di classificare l’individuo come un lavoratore che è impiegato sotto un contratto di lavoro» si legge al paragrafo 87, pagina 27, del testo. È il ribaltamento della logica usata da tutte le multinazionali del trasporto merci e persone in città per nascondere il lavoro necessario a realizzare le loro imprese e rimuovere i diritti che andrebbero riconosciuti a una forza lavoro considerata in maniera servile come un «servizio umano» e non come un assoggettamento volontario causato dalla necessità di vendere la propria forza lavoro per ottenere in cambio un salario.
Sono cinque le ragioni che giustificano il riconoscimento degli autisti in quanto «lavoratori»: la loro remunerazione è fissata da Uber, si legge a pagina 29; i termini dell’accordo con cui le persone accettano di diventare autisti sono imposti dall’azienda e questi lavoratori non hanno capacità di contrattazione; sebbene i lavoratori abbiano la libertà di decidere quando e dove lavorare con la loro macchina, una volta che si sono «loggati» alla piattaforma Uber la scelta di accettare o meno le richieste di passaggi da parte dei clienti è limitata. Uber esercita il suo controllo anche attraverso la sorveglianza algoritmica dei comportamenti degli autisti: accettano o rifiutano i passaggi? Se rifiutano più volte sono «sloggati» dalla piattaforma e devono rientrare dopo dieci minuti.
La sentenza evidenzia il ruolo punitivo e disciplinante di questi comportamenti aziendali (p. 40). Infine Uber controlla e limita al massimo i rapporti tra autisti e clienti. A queste condizioni, aggiungono i giudici inglesi, tanto il tempo passato in attesa di un contatto con il cliente, quanto quello passato per accompagnarlo alla destinazione desiderata, è un «tempo di lavoro».
Vista dall’Italia, la portata di questa vicenda iniziata con un ricorso di due autisti Uber nel 2016 e da noi seguita su Il Manifesto, conferma un orientamento sovranazionale dei giudici. Sentenze simili sono state decise anche in Italia sui ciclofattorini («rider») che hanno lo stesso problema degli autisti di Uber: il riconoscimento dello status di lavoratori subordinati.
Per ora solo Just Eat lo ha riconosciuto, sia in Italia che in Inghilterra, anche se andrà visto in che modo tale status sarà raccordato ai contratti di lavoro nazionali. In generale, tanto in Italia quanto altrove, manca ancora la decisione dei governi e dei parlamenti di regolare una volta per tutte una specifica realtà del lavoro digitale (solo un iceberg di un continente sommerso forse non regolabile con il lavoro subordinato). Ancora grande è il potere delle piattaforme che condizionano una politica inconsistente, come si è visto nella vicenda sulla “legge” approvata in Italia.
* Fonte: Roberto Ciccarelli, il manifesto
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