Pandemia e abbandono: «La scuola impreparata per gli alunni disabili»

Pandemia e abbandono: «La scuola impreparata per gli alunni disabili»

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È appena uscito per Erikson il volume “Bambini, adolescenti e Covid-19 – l’impatto della pandemia dal punto di vista emotivo, psicologico e scolastico”. Tra gli autori del libro c’è il professor Dario Ianes, docente di Pedagogia e didattica speciale presso l’Università di Bolzano.

Professor Ianes, alla fine dello scorso anno scolastico, quando da marzo si interruppero le lezioni in presenza sostituite dalla didattica a distanza (Dad) lei presentò, su questo giornale, una ricerca svolta dalla Lumsa, le università di Trento e Bolzano e la Fondazione Agnelli nella quale si evidenziavano le molte criticità, soprattutto per gli studenti con disabilità, legate alle modalità di insegnamento in pandemia.
Durante la prima ondata le criticità maggiori si sono palesate rispetto alla dispersione scolastica. Le stime variano da un quarto a un terzo di studenti con disabilità “persi” da marzo a giugno. Ovviamente il dato aumenta a seconda dalla tipologia: cresce in proporzione alla disabilità e alla tipologia della stessa.

Il capitolo che lei cura nel libro si chiama «non uno di meno, bambini e adolescenti con bisogni educativi speciali alla prova del Covid-19». A quali prove si riferisce?
Il titolo l’ho preso in prestito da un vostro speciale proprio sul tema dell’integrazione dei bambini e dei ragazzi con disabilità durante la pandemia. Se nella prima ondata abbiamo registrato un tasso significativo di dispersione scolastica, avremmo potuto, già durante il periodo estivo, costruire momenti di riaggregazione, soprattutto per gli studenti con disabilità, con occasioni educative mirate. A settembre abbiamo avuto situazioni differenziate per ordine di scuola. Mentre i bambini della scuola dell’infanzia e della primaria sono sempre stati in presenza, dalla secondaria di primo grado si è ricorsi, per mesi, nuovamente alla Dad. Si è scelto, però, che i ragazzi e le ragazze con disabilità andassero lo stesso a scuola, da soli, seguiti dal solo insegnante di sostegno. Tornare in presenza era giusto ma si sarebbe dovuto fare in “cordate educative” con piccoli gruppi di pari. La soluzione adottate era necessaria ma non sufficiente e ha comportato un’altra differenza tra ragazzi con disabilità e il resto della classe.

Quale impatto emotivo ha avuto la pandemia sui bambini e gli adolescenti con disabilità?
Quello che abbiamo visto nel primo lockdown, dove abbiamo più dati ed informazioni, è racchiuso nella triade frustrazione-rabbia-collera con un peggioramento del 60% di comportamenti-problema. A questi aspetti se ne sono sommati altri come l’aumento dell’incertezza, dell’ansia e la propensione a ritrarsi in se stessi che hanno reso il ritorno a scuola a settembre ancora più difficile. L’abbandono scolastico è molto legato a questi aspetti socio emotivi palesando le differenze socio economiche di partenza e ostacolando, ancora di più, quell’ascensore sociale che la scuola può rappresentare. Con la Dad si sono penalizzati di più quegli studenti che arrivavano da famiglie più indigenti, non solo per i divari tecnologici di partenza ma anche per elementi “strutturali” legati alla propria casa: affollamento, mancanza di privacy, interferenze dell’adulto…

Questi mesi sono stati, quindi, un pesante banco di prova per la scuola italiana?
La pandemia è funzionata come un grande pettine che entra nel “ciuffo” della scuola trovando tutti i suoi nodi: la scarsa disponibilità all’innovazione di una parte del corpo docente, la carenze strutturali legate ai ritardi sulla digitalizzazione delle nostre scuole, l’approssimativa connessione tra alunni con disabilità e il resto dei compagni. Tutti questi nodi “tirano” e fanno male. Con una mano abbiamo tenuto il pettine e con l’altra abbiamo cercato di sciogliere i nodi. Se avessimo potuto farlo con due mani, cioè affrontando tutte queste criticità per tempo, sarebbe stato tutto più facile, efficace e anche meno doloroso.

* Fonte: Roberto Pietrobon, il manifesto



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