by Roberto Ciccarelli * | 25 Febbraio 2021 10:08
Il procuratore capo Francesco Greco: “Non è più il tempo di dire che sono schiavi, ma che sono cittadini che hanno bisogno di una tutela giuridica”. E’ uno dei risultati delle lotte dei rider negli ultimi cinque anni
Da oggi sappiamo che lo sfruttamento di almeno 60 mila ciclofattorini che sfrecciano nelle città italiane per portare il cibo a domicilio costerà alle piattaforme digitali Glovo, Uber Eats, Just Eat e Deliveroo 733 milioni di euro di ammenda e l’obbligo di assumerli tutti entro novanta giorni, da oggi, con un contratto di «prestazione coordinata e continuativa», passando da lavoratori autonomi e occasionali a parasubordinati, come stabilito da una sentenza della Corte di cassazione del 24 gennaio 2020. Se le aziende pagheranno almeno un quarto della cifra massima stabilita da queste ammende, «ciò consentirà loro l’estinzione del reato» compiuto sulla violazione delle norme sulla sicurezza di questi lavoratori ha sostenuto Antonino Bolognani, comandante del Nucleo tutela del lavoro dei carabinieri di Milano.
QUESTO COLPO COLOSSALE, e unico per ora al mondo, ad alcune delle aziende del capitalismo digitale che operano in Italia approfittando delle incertezze delle leggi e della debolezza dei tre ultimi governi è stato impartito ieri dalla procura di Milano. Le conclusioni dell’inchiesta iniziata nel luglio 2019 dopo una serie di incidenti stradali che hanno coinvolto i rider sono state accompagnate dall’apertura delle indagini su sei persone tra amministratori delegati, legali rappresentanti o delegati per la sicurezza delle società in questione. E ancora: il procuratore aggiunto milanese Tiziana Siciliano e il pubblico ministero Maura Ripamonti hanno aperto un’indagine fiscale su Uber Eats, filiale italiana del colosso americano che opera anche nel «food delivery», già finita in amministrazione giudiziaria per caporalato sui rider. «Vogliamo verificare se sia configurabile una stabile organizzazione occulta» dal punto di vista fiscale ha detto ieri il procuratore di Milano Francesco Greco nel corso di una conferenza stampa.
DALLE CARTE dell’inchiesta che copre tre anni dal 2017 al 2020 emerge la durezza del caporalato digitale che tratta la forza lavoro come un «servizio umano», secondo una celebre definizione coniata da Jeff Bezos che richiama una categoria del diritto romano usata per indicare il lavoro servile disumanizzato. «È vergognoso che l’azienda per cui lavoriamo non ci tuteli affatto. Prendiamo acqua, vento, freddo e gelo. Ci picchiano, ci derubano e ci deridono ma nessuno fa nulla. Il mio è uno sfogo ma spero serva da lezione per tutti» ha detto un rider di Benevento, 750 consegne in quasi sette mesi e «soltanto due recensioni negative» , sospeso per qualche giorno per «aver difeso» un collega «novellino» accusato ingiustamente dal «manager» di un locale «di aver mangiato il panino di un ordine». In altri casi è emerso quello che abbiamo denunciato su Il Manifesto[1] nei mesi del primo lockdown: ci sono casi di «esposizione al rischio biologico da Covid». Spesso questi lavoratori sono immigrati che «hanno un permesso di soggiorno regolare, ma a cui non permettiamo di costruire un futuro».
DALL’INDAGINE emerge la descrizione, cruda e realistica, della disciplina impartita dalle piattaforme per organizzare la forza lavoro tramite algoritmo. Questo è il ruolo del «ranking» per classificare il rendimento e aumentare la performatività obbligata i rider. «Non lavorare in alcuni giorni e fasce orarie porta alla retrocessione – si legge – è impossibile usufruire di ferie e malattia. Si è accertato che si ricorre all’espediente di cedere temporaneamente l’account a terzi in grado di garantire le stesse prestazioni». è una pressione continua alla quale non ci si può sottrarre per evitare di essere retrocessi». E poi lo schiaffo durissimo ai capitalisti delle piattaforme : «Il rider non è affatto un lavoratore occasionale che svolge una prestazione in autonomia e a titolo accessorio. Al contrario è inserito nell’organizzazione d’impresa e opera nel ciclo produttivo del committente che coordina il suo lavoro a distanza attraverso un’applicazione digitale preinstallata su smartphone o tablet». Anni di propaganda dissolti in poche righe, la verifica concreta di quanto sostengono le lotte dei rider almeno dal 2016 in Italia (vedi qui le reazioni alla notizia di ieri[2]. «Oggi – ha commentato il procuratore Greco – non è necessario un approccio morale al tema ma un approccio giuridico: non è più il tempo di dire che sono schiavi, ma che sono cittadini che hanno bisogno di una tutela giuridica».
LE AZIENDE hanno subìto il colpo, la gravità delle indagini le ha spiazziate. «Siamo sorpresi, rispettiamo regole» sostiene l’associazione Assodelivery. Deliveroo ha usato il contratto firmato con Ugl, da molti ribattezzato «truffa», per dire che «dal novembre 2020 per ribadire che i rider «sono lavoratori autonomi» e che «il quadro lo contesteremo nelle sedi opportune». Just Eat «ha avviato approfondimenti interni per effettuare le verifiche necessarie». Laconica Uber Eats: «Siamo impegnati per maggiori tutele ai lavoratori». Il neo-ministro del lavoro Andrea orlando si è complimentato con la procura e i carabinieri per l’imponente indagine e ha detto che «la dignità e la sicurezza vanno tutelate in ogni ambito». Non ha detto però se intende lasciare alla magistratura il compito di colmare ciò che la politica non riesce a fare.
Le conclusioni dell’indagine sulle piattaforme digitali di consegna a domicilio condotta dalla procura di Milano sono un altro risultato dell’intelligenza e della determinazione dei rider che, negli ultimi cinque anni, hanno lottato per affermare i loro diritti sociali e il riconoscimento dello statuto di lavoratori dipendenti in Italia. «Finalmente stiamo ottenendo giustizia anche da parte della magistratura milanese – afferma Angelo Avelli dei ciclofattori autorganizzati Deliverance Milano – Questa è la dimostrazione del fatto che lottare in questi anni è servito e sta servendo a qualcosa. Sentiamo che, passo dopo passo, ci avviciniamo ai nostri obiettivi. Questo è un messaggio per tutti i precari: la lotta dei rider non è solo dei ciclofattorini delle piattaforme. È la lotta dei lavoratori contro lo sfruttamento. Questo sta accadendo davvero».
OGGI ALLE 17, a questo indirizzo https://forms.gle/3fbV1cSCTSeyyRgR7[3] e su facebook, ci sarà l’assemblea nazionale indetta dalla rete «RiderXidiritti»alla quale parteciperanno lavoratori da 27 città. L’incontro si preannuncia frequentatissimo e lancerà una nuova ondata di manifestazioni e scioperi da domani a fine marzo: «Questa notizia è una bomba, non ti nascondo l’emozione. E ora noi rider vogliamo dare l’affondo finale alle piattaforme e arrivare alla regolamentazione di questo mondo del lavoro digitale – sostiene Tommaso Falchi di Riders Union Bologna – Vogliamo sottolineare che in Italia è mancata la politica. Da quando abbiamo iniziato le lotte sono passati tre governi. Hanno detto tante belle parole, di fatto i risultati sono stati modesti, il settore non è ancora regolamentato. A me questa situazione ricorda l’Ilva. Dove non arriva la politica, arriva la magistratura. In ogni caso questa situazione è stata imposta dalle lotte. Ci sono costate anche denunce. Le abbiamo prese per affermare quello che, oggi, la magistratura sta affermando anche con le indagini e anche con le sentenze».
IL RUOLO GENERATIVO del nuovo diritto e, si spera, anche di reali tutele sociali effettive svolto dalle lotte dei rider è riconosciuto anche da alcuni dei giuristi del lavoro che in questi anni hanno studiato e spesso anche affiancato i ciclofattorini capaci di inventare nuove forme di auto-organizzazione espansiva nella società. «L’esito delle indagini della procura di Milano testimonia che, anche grazie ai rider, si è finalmente modificato in senso estensivo il campo di applicazione del diritto del lavoro – afferma Federico Martelloni, docente di diritto del lavoro all’università di Bologna e consigliere comunale di Coalizione civica per Bologna – Avevano ragione i rider a dire “Non per noi, ma per tutti”. Questi lavoratori sono una parte di un arcipelago immenso di lavori che potrebbero giovare delle modifiche normative in corso che possono essere applicate sia al loro lavoro mediato dalle piattaforme digitali, ma anche a tutte le attività di carattere personale inserite con continuità in un’organizzazione altrui. Per esempio, se non ci fosse il contratto collettivo, tutti i lavoratori dei call center o le commesse di Calzedonia, per citare i casi più conosciuti. La notizia di ieri è una bomba. Finalmente è caduto il velo sulla pretesa autonomia dei ciclofattorini. È un esito consonante con accertamenti compiuti dalle alti corti tanto in Francia quanto in Spagna richiamati dal tribunale di Palermo che, fino ad oggi, è stato il solo giudice italiano a riconoscere la natura subordinata del rapporto di un rider di Glovo».
«ORA IL GOVERNO deve nuovamente e immediatamente convocate le piattaforme e i sindacati rappresentativi perché si arrivi a una soluzione che garantisca effettivamente il rispetto delle norme e tutela dei lavoratori – sostiene Valerio De Stefano, docente di diritto di lavoro all’università di Lovanio e autore con Antonio Aloisi del libro Il tuo capo è un algoritmo[4] – Quello che emerge dall’inchiesta è che l’autorità chiede alle aziende di riqualificare i lavoratori come etero-organizzati e quindi l’applicazione di tutta la normativa di tutela del lavoro subordinato a meno che un contratto collettivo firmato da organizzazioni sindacali realmente rappresentative autorizzi deroghe specifiche rispetto a questa legislazione. Tutto questo è in linea con la giurisprudenza della Corte di cassazione che ha già affermato che i rider possano essere considerati lavoratori dipendenti»
L’enorme estensione del lavoro attraverso le piattaforme digitali, realizzata durante il primo anno della pandemia, ha spinto ieri la Commissione Ue ad avviare la prima fase di una consultazione delle parti sociali per migliorare le condizioni della nuova forza lavoro. La contraddizione in cui essa è implicata è giuntacosì all’attenzione di Bruxelles: da un lato, c’è il ruolo preponderante del comando capitalistico esercitato dalle piattaforme che disconosce in maniera sistematica la subordinazione di lavoratori come i rider trattandoli come “collaboratori”; dall’altra parte, quella che viene spacciata ancora come “automazione” ed “efficienza” algortimica moltiplica il precariato e le politiche di desalarizzazione dell’attività produttiva realizzata attraverso le piattaforme, nella quasi totale mancanza di trasparenza e prevedibilità negli accordi contrattuali.
L’APERTURA dell’istruttoria, tutta da definire nei reali contenuti, è stata accompagnata ieri dalla presa di posizione della Ces, la Confederazione europea dei sindacati, che ha chiesto alla Commissione europea di fronteggiare «i nuovi cinici sforzi delle società di piattaforme per evitare i loro obblighi più elementari nei confronti dei loro lavoratori». «La Commissione ha lanciato una consultazione sul miglioramento delle condizioni di lavoro nelle società di piattaforme come Uber, Deliveroo o Glovo. Un’iniziativa che arriva dopo alcune importanti sentenze legali in tre Paesi, che hanno stabilito che i conducenti di Uber[5] e i conducenti di Deliveroo[6] non erano realmente lavoratori autonomi e che, invece, dovrebbero essere riconosciuti come lavoratori, con diritti al salario minimo legale, ferie pagate, contributi previdenziali e altri benefici». «Uber ha risposto invitando la Commissione a esentare le piattaforme e dal diritto del lavoro in modo che possano continuare a trarre profitto dal falso lavoro autonomo» ha sostenuto la Ces che ha citato un documento di lobbying di 32 pagine pubblicato dalla società la scorsa settimana. Un modello «che si basa su un’esenzione dal diritto del lavoro per le piattaforme, approvata in California nel 2020 a seguito di una campagna di lobbying da 205 miliardi di dollari da parte di Uber, Lyft e altri. La stessa somma di denaro avrebbe potuto essere utilizzata per dare a 14.000 lavoratori un aumento di 1.000 euro in più al mese di salari e sussidi sociali per un anno»,.
«LE PIATTAFORME piattaforme hanno anche aumentato le loro attività di lobbying a Bruxelles. Uber ha quasi raddoppiato i suoi costi di lobbying dal 2015, Deliveroo ha aperto un ufficio a Bruxelles nel 2018 e lo scorso anno ha raddoppiato il suo personale, mentre Just Eat si è registrato come lobbista solo due mesi fa, secondo LobbyFacts.Eu», spiega la nota. Per il segretario confederale della Ces Ludovic Voet: «Non sorprende che le società di piattaforme con pratiche illegali vogliano evitare il controllo quando continuano a perdere casi giudiziari in tutta Europa. Gli costa milioni. Alcune società di piattaforme realizzano enormi profitti attraverso il falso lavoro autonomo di persone che dovrebbero essere trattate come lavoratori e beneficiare di salari, ferie e sicurezza sociale adeguati».
* Fonte: Roberto Ciccarelli, il manifesto[7]
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