by Sergio Segio * | 2 Febbraio 2021 7:10
La Giornata mondiale per i diritti umani ricorre il 10 dicembre, a ricordare il giorno in cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò, nel 1948, la relativa Dichiarazione universale. Quel documento è considerato il più tradotto al mondo, tanto da essere disponibile in ben 500 lingue e idiomi. Contemporaneamente, è forse quello che vede la maggior distanza tra enunciati e reale applicazione a livello globale. Dopo 72 anni, sono visibili sia inevitabili inadeguatezze legate al complessivo cambiamento d’epoca, sia i limiti di un approccio retorico e liberale al presunto universalismo di quei diritti, storicamente determinatosi come “occidentalocentrico”. Limiti che dovrebbero essere maggiormente percepiti e compresi come tali nel tempo della globalizzazione neoliberista. Un’epoca fortemente caratterizzata dalla sacralità del profitto e dalla libertà dei mercati a discapito di quella delle persone, a cominciare dalle più penalizzate dal processo di drenaggio della ricchezza sociale dal basso verso l’alto in corso da almeno un trentennio. Un “trickle up” che ha fatto lievitare ed esplodere le diseguaglianze in modo sempre più intollerabile e socialmente insostenibile.
L’approccio dei diritti globali
Da una concezione dei diritti umani tradizionalmente definiti e intesi bisognerebbe finalmente passare alla prospettiva dei diritti globali (nel nostro piccolo, da due decenni proposta dall’omonimo Rapporto annuale, edito da Ediesse-Futura, quest’anno titolato Il virus contro i diritti), vale a dire all’insieme virtuoso e sinergico di diritti sociali, diritti economici, diritti ambientali che, in modo indissolubilmente interdipendente, vada a fecondare, integrare e così realizzare davvero le altre sfere di diritti, civili e individuali, per come fissati nelle Carte della metà dello scorso secolo.
Rimane intanto vero che da quelle dichiarazioni e documenti bisogna partire per fare bilanci e tentare rilanci, a maggior ragione nell’emergenza della crisi pandemica, tuttora drammaticamente in corso.
È, in ogni modo, significativo che anche organizzazioni autorevoli come Amnesty International, espressamente fondate sulla difesa dei diritti umani, nel tempo del Coronavirus abbiano promosso iniziative, studi e campagne mirate sui diritti sindacali e su quelli sociali. Nel Rapporto Amazon, let workers unionize! Respect for workers’ rights is not a choice, pubblicato in novembre, si denuncia come la maggiore corporation statunitense contrasti i tentativi dei suoi dipendenti di organizzarsi in sindacato, proprio mentre quei lavoratori e quelle lavoratrici stanno correndo grandi rischi per la salute e sicurezza a causa della pandemia e delle condizioni di lavoro loro imposte. Nella ricerca Abbandonati – Violazione del diritto alla vita, alla salute e alla non discriminazione delle persone anziane nelle strutture sociosanitarie e socioassistenziali durante la pandemia in Italia, diffusa in dicembre, viene invece rimarcato come le scelte politiche e organizzative in risposta al Covid-19 da parte delle istituzioni italiane nelle strutture sociosanitarie e socio-assistenziali si siano tradotte in violazioni del diritto alla vita e alla salute e nella discriminazione degli ospiti anziani. La Lombardia permane come modello negativo e tragico di come e quanto la privatizzazione dei servizi sanitari abbia concorso alla strage e di come, impudentemente e impunemente, sia proseguita e si sia estesa anche nel corso della pandemia.
Le cause della sindemia
Pandemia che andrebbe, in verità, meglio denominata sindemia. Per essa, spiega l’enciclopedia Treccani, va inteso l’insieme di problemi di salute, ambientali, sociali ed economici prodotti dall’interazione sinergica di due o più malattie trasmissibili e non trasmissibili, caratterizzata da pesanti ripercussioni, in particolare sulle fasce di popolazione svantaggiata. È esattamente quel che si ricava dalla disamina della crisi sanitaria in corso, che mette in chiaro – o lo dovrebbe – le radici e le responsabilità alla base di quei problemi e le misure necessarie ad evitare, o almeno limitare, quelle ripercussioni. Diversamente, perlopiù quelle cause non sono state indagate e corrette; per le responsabilità non è stato chiesto alcun conto; le misure atte a non vulnerare ulteriormente i già vulnerati non sono state adottate.
Come sempre, le crisi sono ambivalenti: possono produrre cambiamento – e resipiscenza – oppure ripiegamento e conservazione. In questo 2020 abbiamo visto esacerbato il carattere predatorio del “capitalismo dei disastri”, con l’impennata dei profitti delle multinazionali del digitale, Amazon in testa, oltre che del farmaceutico e della finanza speculativa. Emblematica la quotazione in Borsa dell’acqua, da parte di CME Group. L’“oro blu” da bene comune e diritto umano viene così trasformato in commodity, in merce da cui ricavare profitto: è avvenuto per la prima volta proprio nel pieno della seconda ondata della pandemia, nel dicembre 2020. Quasi nessuno ne ha parlato e ha colto l’inquietante novità. Tra i pochi a protestare, le Nazioni Unite, attraverso Pedro Arrojo-Agudo, Relatore speciale sui diritti umani per l’acqua potabile e i servizi igienico-sanitari sicuri.
Le Nazioni Unite e i diritti umani
Negli ultimi anni il quadro globale è marcatamente e pericolosamente degenerato nell’unilateralismo aggressivo, favorito dalle spinte sovraniste e in particolare dalle scelte operate dall’Amministrazione Trump, tutte all’insegna dell’imposizione del diritto del più forte e della messa in mora degli organismi sovranazionali. All’opposto, nel tempo della pandemia, l’Organizzazione mondiale delle nazioni ha accentuato la propria capacità di visione e di sollecitazione nella difesa dei diritti umani, anche se i reali poteri di intervento permangono deboli e le strutture vetuste e burocratizzate. Nondimeno, va riconosciuta la pressione positiva venuta in questo periodo a più riprese dal segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres.
In questo finale del 2020, appunto il 10 dicembre, nel suo messaggio Guterres ha esortato a mettere i diritti umani «in primo piano e al centro» della risposta a livello globale al Covid-19. A invertire dunque la rotta, poiché, invece, i lunghi e faticosi mesi alle spalle hanno visto dinamiche e scelte politiche per cui «la pandemia ha avuto un impatto sproporzionato su gruppi vulnerabili, tra cui lavoratori in prima linea, persone con disabilità, persone anziane, donne e ragazze e minoranze». Ciò è potuto succedere «perché la povertà, la disuguaglianza, la discriminazione, la distruzione del nostro ambiente naturale e altri fallimenti dei diritti umani, hanno creato enormi fragilità nelle nostre società». Le risposte al dilagare della malattia epidemica, insomma, stanno «minando i diritti umani, fornendo un pretesto per risposte securitarie e misure repressive che limitano lo spazio civico e la libertà dei media» (Human rights must be ‘front and centre’ of COVID-19 response: Secretary-General, https://news.un.org/en/story/2020/12/1079632, 10 dicembre 2020).
Lo stesso segretario generale, pochi giorni dopo, in visita a Berlino per i 75 anni delle Nazioni Unite, rispondendo ai giornalisti, ha provato a fare un bilancio dell’appello da lui lanciato all’inizio della pandemia a fermare guerre e conflitti armati, in modo che attenzioni ed energie potessero concentrarsi efficacemente sulla lotta globale al Covid-19. Era facile prevedere, infatti, che la somma delle due emergenze, quella bellica e quella sanitaria, avrebbe provocato disastri irreparabili in paesi e aree già martoriate, riverberandoli poi a livello globale. Non solo perché i campi di battaglia rendono ovviamente meno praticabili e prioritarie le misure sanitarie e di prevenzione del contagio, che invece si diffonde più facilmente con i flussi di sfollati e fuggitivi, ma anche perché si riduce il personale delle agenzie umanitarie, i costi bellici sottraggono importanti risorse al sostegno delle popolazioni, le economie vengono ulteriormente compromesse, le strutture sanitarie distrutte o ingolfate, l’ambiente devastato.
A distanza di dieci mesi, il segretario generale ha ora messo in fila alcuni risultati: un cessate il fuoco, magari fragile e precario, che tiene in Libia, in Siria, in Ucraina e da ultimo nel Nagorno-Karabakh; un accordo di pace in Sudan; in Yemen qualche segnale positivo che si arrivi a una dichiarazione comune delle parti in conflitto; colloqui che, nonostante le difficoltà, continuano in Afghanistan («Der Impfstoff muss überall erschwinglich sein», intervista a cura di Carsten Luther e Marcus Gatzke, “Die Zeit”, 17 dicembre 2020).
La strategia demolitoria di Donald Trump
Nel constatare un bilancio dunque non troppo entusiasmante, va ricordato che la risoluzione per un cessate il fuoco a livello mondiale, in sede di Consiglio di sicurezza dell’ONU, a fine marzo 2020 era stata bloccata da Donald Trump, il quale aveva preteso che nel testo non vi fosse alcun riferimento all’Organizzazione Mondiale della Sanità, da lui accusata, al pari della Cina, di aver nascosto informazioni nei primi giorni della pandemia. Accuse senza prove e fondamento, ma usate per inasprire pretestuosamente le relazioni con Pechino e per distogliere le attenzioni dei cittadini americani dalle responsabilità, invece acclarate, dell’ex presidente americano nei ritardi, sottovalutazioni, negazioni riguardo il dilagare del contagio e il suo inefficace affrontamento. L’imposizione di Trump aveva causato tre mesi di ritardi. «Nel frattempo, 12 milioni di persone erano state infettate dal SARS-CoV-2 e più di 500.000 erano morte. A quel punto lo slancio della proposta di interruzione dei conflitti si era ormai esaurito» (Wintour Patrick, What is the future of the UN in the age of impunity?, “The Guardian”, 23 luglio 2020).
Seppure le Nazioni Unite andrebbero certamente riformate in vari aspetti, per adeguare strutture ed equilibri pensati tre quarti di secolo fa, all’indomani di una guerra mondiale, la questione che emerge in questa breve ricostruzione è però un’altra: vi è stata precisa responsabilità da parte di singoli governanti nel sabotare sia il cessate il fuoco internazionale, sia l’adeguato fronteggiamento della pandemia. Solo sei anni addietro, nel 2014, lo stesso Consiglio di sicurezza aveva approvato in un solo giorno e all’unanimità una risoluzione sul virus Ebola, definito una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale. Altri tempi, e altri presidenti.
Nel tempo della pandemia, in un quadro di rottura del multilateralismo e di conseguente disordine mondiale che la presidenza Trump ha perseguito ed esasperato, della impotenza delle Nazioni Unite e della debolezza di organismi quali la Corte penale internazionale si sono avvantaggiati gli attori statali più disinvolti e aggressivi, in primis gli stessi Stati Uniti. Assieme, lo hanno fatto anche altri, ancor meno frenati da un sistema di controllo democratico e avendo preventivamente e violentemente represse le opposizioni interne. In particolare, la Turchia del sultano Recep Tayyip Erdoğan e l’Egitto del golpista Abdel Fattah al-Sisi. Diverso il ruolo della Russia di Vladimir Putin, che, pur perseguendo con altrettanta determinazione e cinismo i propri interessi geostrategici, ha comunque provato ad esercitare in alcuni teatri, a partire dalla Siria e per finire nel Nagorno-Karabakh, un ruolo di riequilibrio e disinnesco di possibili e pericolose degenerazioni. Ma quanto a deficit di controllo democratico e impunità anche la Russia non si fa mancare nulla, visto che il 22 dicembre 2020 Putin ha emanato la legge federale n. 462-FZ che prevede l’immunità a vita da procedimenti penali o amministrativi per gli ex presidenti e i loro familiari, che non potranno così essere arrestati e detenuti, soggetti a perquisizioni e interrogatori. Dal canto suo, Donald Trump, ancora asserragliato nella Casa Bianca sotto Natale, ha distribuito grazie a raffica. Tra i beneficiari: tre suoi colleghi repubblicani ex membri del Congresso; due suoi collaboratori incriminati per il Russiagate; quattro mercenari della compagnia militare privata statunitense Blackwater (ora Academi) accusati dell’uccisione di civili iracheni.
Omicidi di Stato e impunità
In questi mesi, di nuovo complice l’uso della pandemia come arma di distrazione di massa, è cresciuta altresì una forma di guerra strisciante – e perciò meno avvertita, quanto meno dalle pubbliche opinioni – costituita da omicidi mirati da parte di entità statali e governi.
L’assassinio dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh, responsabile del locale programma nucleare, avvenuto il 27 novembre, è solo uno degli ultimi di una lunga serie di omicidi di Stato; le responsabilità di quel crimine – dirette di Israele e indirette degli Stati Uniti –, indicate da fonti autorevoli come il “New York Times”, non sono state smentite. Tra i casi più noti vi sono quello del giornalista saudita Jamal Khashoggi dell’ottobre 2018 e quello del generale iraniano Qasem Soleimani, ucciso da un drone americano assieme a tutti i suoi nove accompagnatori in Iraq nel gennaio 2020. Le relazioni conclusive delle inchieste promosse al riguardo dalle Nazioni Unite sono inequivocabili e definiscono l’uccisione di Khashoggi un omicidio extragiudiziale, del quale è responsabile lo Stato dell’Arabia Saudita, e quello di Soleimani un omicidio arbitrario a opera degli Stati Uniti, che peraltro introduce «la reale possibilità che tutti i soldati, in qualsiasi parte del mondo, possano costituire un bersaglio legittimo».
Inutile dire che si tratta di omicidi impuniti. L’impunità è la caratteristica specifica dei crimini di sistema e dei crimini di Stato; proprio come la tortura è reato tipico del pubblico ufficiale, nonostante alcune legislazioni, come quella italiana, rifiutino di ammetterlo e contemplarlo.
L’omicidio mirato – spesso effettuato dopo sparizioni forzate e rapimenti anche internazionali – non è solo strumento per perseguire obiettivi geostrategici, come nel caso Soleimani o in quello Fakhrizadeh. Ancora più spesso è modalità di repressione del dissenso interno e di eliminazione fisica di oppositori. Un campo nel quale l’Iran non è secondo a nessuno, come mostrano i casi recenti di Habib Chaab, rifugiato politico in Svezia, rapito a Istanbul e ricondotto a Tehran, e del giornalista dissidente Ruhollah Zam, sequestrato in Iraq per essere riportato e impiccato in Iran.
Mentre le frontiere si chiudono per limitare il diffondersi del Coronavirus, sono dunque più permeabili che mai ai servizi di sicurezza e ai killer di Stato, nella distrazione talvolta complice di altri paesi e nella certezza dell’impunità.
In definitiva, il 2020 ha mostrato come il virus della negazione dei diritti, nelle sue diverse varianti nazionali, sia più che mai attivo, aggressivo e circolante e che la ricerca di un “vaccino” ad hoc non pare essere nelle priorità politiche. Nell’inerzia dei governi, l’informazione, la denuncia, la sensibilizzazione, l’azione politica dal basso sono allora l’anticorpo necessario da generalizzare e diffondere.
* Articolo di Sergio Segio, curatore del “Rapporto sui diritti globali”, pubblicato nella rivista “Oltre il capitale[1]“, numero 5, gennaio 2021, qui scaricabile
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Il 18° Rapporto sui diritti globali – Stato dell’impunità nel mondo 2020, “Il virus contro i diritti”, è realizzato da Associazione Società INformazione.
L’edizione italiana, Ediesse-Futura editore, in formato cartaceo può essere acquistata anche online: qui
L’edizione internazionale, in lingua inglese, Milieu edizioni, può essere acquistata qui in cartaceo e qui in ebook
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