by Marco Revelli * | 5 Febbraio 2021 11:17
Una data da segnare nigro lapillo per almeno due buone ragioni. In primo luogo perché in quelle poche ore che passano tra il prolungamento ormai stucchevole del tavolo e la resa di Fico, è stato inferto un colpo mortale alla politica. Non a un governo, o a una coalizione già di per se stessa boccheggiante, ma alla politica tout court. È stato certificato il dissolvimento di tutti i suoi linguaggi, divenuti via via privi di senso di fronte ai capovolgimenti e alle triple verità, e insieme il fallimento di tutti i suoi protagonisti, di maggioranza e di opposizione, incapaci di uscire dal labirinto nel quale un pirata politico senza scrupoli come Matteo Renzi li aveva cacciati, annunciandone il commissariamento da parte di un “uomo di Banca” quale Mario Draghi nella sua sostanza è. Se è vero l’assunto che nello “stato d’eccezione” si rivela il vero Sovrano, ebbene in questo drammatico stato d’eccezione in cui pandemia sanitaria e follia politica ci hanno gettato, Sovrana si rivela, infine, la potenza del Denaro, nella forma antropizzata dei suoi sacerdoti e gestori.
Ma c’è una seconda ragione per considerare foriera di sciagure la giornata del 2 di febbraio: ed è che quella sera si è aperto un vaso di Pandora. Si è messa in moto una reazione a catena che forse già nell’immediato ma sicuramente nel tempo medio è destinata a colpire al cuore (quasi) tutte le forze politiche che compongono il già ampiamente lesionato sistema politico italiano. Tutte fragili, attraversate da un reticolo di fratture, di contrasti personali, di conflitti di piccoli gruppi e comitati d’affari, nessuna saldata da una qualche cultura politica forte capace di prevalere sui personalismi, a cui il gioco al massacro inaugurato dal demolitore di Rignano ha impresso un’accelerazione folle, senza freno né direzione, innescando una potenziale esplosione centrifuga di ognuna.
Dei 5Stelle di certo, a cui l’onda di piena crescente aveva portato un patrimonio elettorale enorme e un personale politico raccogliticcio, destinato oggi a disperdersi con la fase calante. Ma anche il Pd, il cui arcipelago di frazioni teneva insieme con lo sputo, pieno com’era delle mine vaganti disseminate da Renzi al suo interno, ma in cui l’ultimo azzardo del suo ex segretario non potrà che rinfocolare ripicche e rancori vecchi e nuovi. E la Lega stessa non potrà reggere l’urto del cambio di paradigma politico senza vedere le proprie linee di faglia allargarsi, nell’impossibilità di tenere insieme un eventuale sostegno (diretto o indiretto) all’uomo-simbolo dell’ “Europa della Finanza” con la militanza sul fronte del sovranismo etnocentrico. Forse solo Fratelli d’Italia si potrà salvare dal maelstrom restandone ai bordi.
Può darsi che nell’immediato si trovi una qualche formula capace di salvare la faccia ai principali players (una riedizione della maggioranza giallo-rosa a guida Draghi anziché Conte, una “maggioranza Ursula” con dentro anche il caimano)… Ma la tendenza è al generale dissolvimento di ogni possibile quadro politico il che equivale, tecnicamente, a una “crisi di sistema” che potrebbe rivelarsi una voragine nelle urne del 2023.
Così “in alto”. Ma poi c’è “il basso”, quello che si chiama “il Paese”, che è allo stremo: in questi giorni, dum Romae consulitur, ogni ora che passa si perdono 50 posti di lavoro. Per ogni giorno di stallo sono 1200 disoccupati in più. Dalla famosa conferenza stampa di Matteo Renzi in cui annunciava il ritiro delle sue due ministre e apriva in modo corsaro una crisi incomprensibile al giorno della resa di Fico sono trascorsi esattamente 20 giorni (compreso quello in cui il principale responsabile di quello stallo se ne è andato a guadagnare i suoi 80.000 dollari con un atto di asservimento a uno dei peggiori despoti del mondo), nel corso dei quali se ne sono andati 24.000 redditi da lavoro. Milioni di lavoratori, dipendenti e autonomi, sono naufragati: 393.000 contratti a termine non sono stati rinnovati, 440.000 in prevalenza giovani hanno perso il posto, altre centinaia di migliaia lo perderanno se il blocco dei licenziamenti non verrà prolungato. Tutti aspettano una boccata d’ossigeno, i benedetti “ristori”, per poter continuare a respirare. E tuttavia, bene che vada, se la crisi di governo non si avvita ulteriormente, occorreranno settimane prima che l’Esecutivo ritorni operativo. E se fosse, come è possibile, un governo “tecnico”, sappiamo bene quale sia la sensibilità sociale dei tecnici… Anche se si chiamano Mario Draghi.
E qui veniamo alle sue molteplici “vite”. Ho detto che Draghi è un “uomo di banca”. Ma sono stato impreciso. Avrei dovuto dire uomo di banca nell’epoca in cui le banche – le Grandi Banche, quelle di dimensione globale – assumono responsabilità dirette di governance universale. Poteri non forti ma fortissimi, da cui dipendono vita e morte dei popoli. E il profilo di Draghi si dipana per buona parte all’interno di quell’universo. Dopo la sua (precoce) prima vita accademica, in cui allievo di Caffè ha conosciuto e condiviso i principii keynesiani, è passato, con una certa rapidità, al ruolo di grand commis di Stato come Direttore del Ministero del Tesoro sotto tutti i governi (da Andreotti ad Amato a Berlusconi) distinguendosi in perfetto stile neoliberista nel ruolo di grande privatizzatore di quasi tutto (Iri, Eni, Enel, Comit, Telecom).
È a quel punto che emigra per un rapido passaggio nell’universo globale di Goldman Sachs come membro del Comitato esecutivo del gruppo per poi tornare, rigenerato, alla guida della Banca d’Italia (2005) e nel 2011 a capo della Bce: appena in tempo per firmare insieme a Trichet la “terribile” lettera al Governo italiano che apre la stagione delle lacrime e sangue. Salva certo l’Euro con il fatidico whatever it takes nel luglio del 2012 ma nello stesso anno tiene a battesimo il compact fiscal e nel luglio del 2015 non si farà scrupolo di spingere sott’acqua la Grecia di Alexis Tsipras togliendo la liquidità d’emergenza alla sue banche e, l’anno dopo, di ispirare il jobs act renziano. La Pandemia gli suggerisce un sostanzioso allentamento dell’austerità, ma non ne attenua la vocazione privatistica e l’ostilità nei confronti della funzione redistributrice dell’intervento pubblico.
Non stupisce l’immediato riflesso di Confindustria che saluta il suo incarico chiedendo la liquidazione del reddito di cittadinanza e di quota 100 oltre al ritorno alla libertà di licenziare. Se venisse ascoltato, quell’appello, sarebbe foriero di ulteriore minaccia nel già fosco scenario italiano perché oltre alla dissoluzione della mediazione politica si rischierebbe un ulteriore sprofondamento sociale. E un forse definitivo divorzio tra istituzioni e popolo.
* Fonte: Marco Revelli, il manifesto[1]
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