Disastri climatici, gli sfollati hanno bisogno di un nuovo diritto
Con un ritardo ventennale rispetto alla ricerca, negli ultimi anni anche la politica ha iniziato a prestare attenzione alle connessioni tra cambiamenti climatici e spostamenti di popolazione, annoverando le mutazioni ambientali di varia natura tra i fattori di spinta delle migrazioni.
Secondo i dati dell’Internal Displacement Monitoring Centre, nel 2019 conflitti e disastri ambientali hanno provocato 33,4 milioni di nuovi sfollati interni; all’origine di questi spostamenti di popolazione ci sono stati conflitti (8,5 milioni di persone) e disastri naturali estremi (24,9 milioni).
Questi dati, oltre a non tenere conto di movimenti migratori dovuti a mutamenti ambientali a lenta insorgenza, o a quelli determinati dalla costruzione di grandi opere, non riescono a fornire informazioni sul numero di persone costrette a compiere una migrazione internazionale.
La complessità della questione è tale da determinare l’assenza di un accordo anche in ordine alla definizione da utilizzare; scegliere di parlare di «migranti climatici» o di «rifugiati ambientali» può infatti avere delle conseguenze politiche e giuridiche molto diverse.
A livello europeo, si parla tendenzialmente di «migrazioni e sfollamenti indotti da fattori ambientali», distinguendo tra gli sfollamenti e le forme volontarie di migrazione e cercando di individuare possibili risposte in termini di prevenzione e protezione.
La discussione in atto sulle possibili soluzioni vanno dall’adattare gli strumenti di protezione già esistenti all’individuarne uno nuovo, fino alla promozione di canali di migrazione regolare in modo da aumentare la capacità di adattamento delle persone e degli Stati al cambiamento climatico.
Nel 2020, il Comitato dei diritti umani dell’Onu, nella decisione resa in merito alla causa Teitiota contro Nuova Zelanda, ha affermato che le persone in fuga dagli effetti dei cambiamenti climatici e delle catastrofi naturali non dovrebbero essere rimpatriate verso i propri Paesi di origine qualora vi fosse il rischio di subire una violazione dei loro diritti umani una volta fatto ritorno.
A livello nazionale, in alcuni casi, si è arrivati a riconoscere la protezione sussidiaria o la protezione umanitaria a richiedenti protezione internazionale provenienti da Paesi fortemente interessati dal cambiamento climatico o dallo sfruttamento delle risorse naturali, attribuendo rilevanza a tali eventi soprattutto in termini di vulnerabilità soggettiva o oggettiva.
Nel 2018 è stato introdotto nell’ordinamento il permesso di soggiorno per calamità che può essere rilasciato allo straniero quando il suo Paese d’origine versa in una situazione di grave calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza.
Sebbene tale permesso di soggiorno sia da accogliere positivamente, la complessità delle migrazioni ambientali può più probabilmente essere affrontata solo con l’utilizzo di vari strumenti con la conseguenza che la ricerca di soluzioni giuridiche e politiche non può essere interrotta.
*Avvocata Asgi
* Fonte: Anna Brambilla, il manifesto
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