Stati Uniti. Trump incita alla rivolta, i sostenitori assaltano e invadono il Campidoglio

by Roberto Zanini * | 7 Gennaio 2021 11:09

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La democrazia degli Stati uniti così come la conosciamo non esiste più. Finisce in un’insurrezione, una jacquerie nel cuore di Washington, un urto di popolo che assalta il Campidoglio, spacca finestre, penetra nell’edificio e nel sistema democratico, devasta l’atto finale del processo di costruzione delle istituzioni.

La delegittimazione delle elezioni è diventata violenta. Lo era già, in ogni modo possibile, con il solo limite dell’aggressione fisica. Ieri a Capitol Hill quel limite è stato superato. Oggi, al risveglio, gli Stati uniti sono un’altra cosa.

«Le elezioni non sono state rubate, non ci sono stati brogli». Manca poco alle tre del pomeriggio quando Mitch McConnell pronuncia le parole che seppelliscono Donald Trump. Non ci sarà un colpo di stato del parlamento, la ratifica dei risultati elettorali non salterà in aria, Joe Biden sarà dichiarato vincitore.

Fuori, davanti alla Casa Bianca, qualche migliaio di persone grida nel gelo e brandisce cartelli. Sono le truppe trumpiste superstiti accorse in Pennsylvania Avenue per combattere l’ultima battaglia. McConnell è stato per quattro anni fedelissimo araldo di Trump ma anche lui ha un limite. Come il vicepresidente Mike Pence prima di lui, il leader di maggioranza del Senato rifiuta di annullare il voto «irregolare» e ri-votare in alcuni stati, oppure scartare d’autorità i grandi elettori prodotti dal voto e sostituirli con quelli nominati dallo stesso Pence.

Ma le truppe trumpiste non gradiscono e l’incredibile accade. Poco dopo le parole di McConnell, a centinaia si staccano dalla manifestazione e salgono di corsa la scalinata del Campidoglio, riescono ad arrivare al grande colonnato che circonda l’ingresso dell’edificio, spaccano una finestra e penetrano nel grande ingresso tra i marmi e bronzi dei padri fondatori. Gridando, berretti rossi in testa e cellulare in pugno, salgono e scendono scale, alcuni scattano selfie dalle scrivanie dei leader del paese con cartelli fatti a mano: «Non ci fermeremo».

Gli agenti li affrontano a manganellate – armi vengono estratte, i manifestanti non sembrano averne. Sulla strada volano lacrimogeni, la seduta plenaria del Congresso viene interrotta, il sindaco di Washington, Dc ordina il coprifuoco per le sei del pomeriggio: ci sono poco più di tre ore per svuotare le strade della capitale.

In mattinata Trump aveva convocato un comizio in un parco vicino alla Casa Bianca e chiesto al suo vice Mike Pence di «avere il coraggio» di bloccare la vittoria di Biden. «Non concederò mai la sconfitta», aveva detto, «non possiamo sopportare a lungo quello che ci stanno facendo». E aveva incoraggiato a portare la propria ira davanti al Campidoglio: «Stop the steal», fermate il furto, uno slogan che è una chiamata alle armi.

Mike Pence è stato scortato fuori dall’aula da personale armato ed evacuato dall’edificio attraverso un passaggio di sicurezza. Ai parlamentari sono state distribuite maschere antigas, ed è stato chiesto loro di rientrare negli uffici. Mentre anche in Georgia un manipolo di supporter di Trump ha messo sotto assedio il palazzo del Congresso georgiano: la polizia ha evacuato il segretario di stato Brad Raffensperger – l’uomo a cui Trump aveva chiesto di trovare «in ogni modo» gli 11.800 voti che gli mancavano.
Mentre Trump twettava contro Pence e la sua «mancanza di coraggio», e solo dopo molto tempo chiedeva via tweet ai manifestanti di «restare pacifici» – non di andarsene.

Fermo sulla linea della delegittimazione del voto, il presidente, e lo deve fare: la sua holding annega nei debiti, non riscossi solo per l’incarico che ricopre, e il suo immediato futuro prevederebbe inchieste (una mezza dozzina già avviate) e carcere. Prima di lasciare potrebbe auto-concedersi il perdono presidenziale o farsi perdonare da Pence. Si parla di un Boeing 757 militare pronto ad evacuarlo dal paese il 19 gennaio, il giorno prima dell’insediamento di Biden, forse per la Scozia dove ha un campo da golf.

* Fonte: Roberto Zanini,  il manifesto[1]

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