Il carcere è malato, le riforme necessarie partono dal basso e da dentro

Il carcere è malato, le riforme necessarie partono dal basso e da dentro

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È tempo di bilanci e di propositi, sempre buoni nelle intenzioni, per le istituzioni, per la vita sociale oltre che per le singole persone.

Il carcere può essere un buon luogo di osservazione per far emergere contraddizioni e incapacità, in un punto delicato del funzionamento della giustizia e del diritto. Parto dalla questione di estrema attualità e che ha suscitato una interessante discussione, quella della campagna di vaccinazione e la scelta delle categorie ritenute più vulnerabili e a cui dare priorità. Sono stati inseriti gli ospiti delle residenze per gli anziani non solo perché soggetti fragili, ma perché sono tra quelli che hanno pagato un prezzo doloroso di morti nella prima fase del contagio. Ha stupito invece l’assenza tra le categorie con priorità, delle detenute e dei detenuti, che hanno un numero rilevante di contagi (oltre 800), assieme agli agenti di polizia penitenziaria (oltre 1000), anche se per una congiunzione astrale fortunata si è tradotto in un numero limitato di decessi. Da dieci mesi queste persone sono condannate all’isolamento, alla cancellazione degli incontri con i familiari e dei colloqui con i volontari. Le attività sono state sospese e la vita, costretta in celle piccole e abitate da troppi corpi, si dipana in un clima di paura continuo. Altro che distanziamento di sicurezza e misure igieniche per evitare il contagio! Per non parlare dei bagni o dei cessi a vista e delle docce usate promiscuamente, che sono una caratteristica di quella struttura chiusa, di afflizione e contro la dignità.

È evidente che siamo di fronte a una palese discriminazione; invece di domandarsi o confessare la ragione di fondo di una tale scelta, si teorizza come il massimo della disponibilità, la convinzione che il mondo delle carceri vada trattato come il mondo di fuori, adottando gli stessi criteri, fondati o arbitrari, stabiliti da un decreto del ministro della Salute. Prima gli ultraottantenni, che in carcere per altro non dovrebbero stare, poi i soggetti con gravi patologie (anch’essi dovrebbero godere di misure alternative), infine la massa della detenzione sociale. I reclusi nelle sezioni del 41bis saranno probabilmente gli ultimi a essere vaccinati, se le dosi saranno sufficienti.

Manca totalmente l’attenzione alla specificità del luogo, una istituzione totale, che secondo l’insegnamento di don Milani dovrebbe sconsigliare di fare parti uguali fra diseguali. Ma soprattutto è assente l’obbligo morale e giuridico di rispettare il diritto alla salute di persone che sono nella piena disponibilità dello Stato e sotto un controllo che non può essere arbitrario. Esiste anche la dimensione di sanità pubblica che va tutelata rispetto all’uscita dal carcere di soggetti con infezioni e patologie. D’altronde, non si possono trattenere le persone oltre il limite della pena scontata o della carcerazione preventiva per eseguire il vaccino secondo un calendario casuale.

La spiegazione di questa deformazione concettuale è semplice, è legata alla diffusa pretesa di legalità, di uguaglianza, di giustizia contro i privilegi. Soprattutto per la paura di fare una scelta che possa essere additata dai forcaioli di turno come un trattamento di favore verso i delinquenti.

Così, senza accorgersene, si mettono sotto i piedi i principi della Costituzione.

La crisi del carcere però non nasce dalla pandemia, ha le radici nell’applicazione timida e parziale della riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975 e nel ridimensionamento della legge Gozzini per rispondere alla emergenza degli attentati mafiosi. Si dovette aspettare il 2000 per approvare il Regolamento penitenziario, elaborato da Sandro Margara negli anni in cui io ero sottosegretario alla Giustizia; dopo venti anni si deve constatare che molte delle indicazioni previste per garantire i diritti fondamentali sono lettera morta. L’organizzazione e gli spazi per il lavoro, lo studio, le attività culturali sono limitati se non inesistenti in molti, troppi, dei 186 istituti penitenziari dove i corpi si trovano ammassati, senza senso e senza prospettive; questa condizione spiega il numero dei suicidi e soprattutto il numero enorme di atti di autolesionismo. Una realtà delle notti carcerarie tenuta coperta dal rumore delle televisioni e dalla diffusione di farmaci per sopire la difficile sopravvivenza.

L’altro elemento che ha determinato la bulimia del carcere e ha cambiato la sua composizione sociale sono state le leggi criminogene: prima la legge antidroga Iervolino-Vassalli del 1990 e poi le leggi contro l’immigrazione e gli stranieri, tossici e clandestini individuati come i nemici perfetti.

Il Dpr 309/90 prevedeva pene severissime per un reato senza vittime. Sono ormai undici anni che la Società della Ragione, con molte altre associazioni impegnate su questo fronte, pubblica nel Libro Bianco ad hoc i dati impressionanti del peso sulla giustizia e sul carcere della legislazione proibizionista che si aggira intorno al 50% degli ingressi e delle presenze: 21.000 soggetti pari al 35% per violazione dell’art. 73 della legge punitiva per detenzione o piccolo spaccio e oltre 16.000 pari al 28%, consumatori di sostanze stupefacenti e classificati come tossicodipendenti. Va ricordato che quella legge fu aggravata nella concezione ideologica (“la droga è unica e senza differenze tra leggere e pesanti”) e quindi nella repressione, dalla legge cosiddetta Fini-Giovanardi che fu cancellata da una sentenza della Corte costituzionale nel 2014. Sarebbe facile vincere la scommessa che, senza quell’intervento di giustizia e di condanna di un atto incostituzionale del Parlamento, la legge sarebbe ancora in vigore per l’impotenza e la mancanza di coraggio delle forze politiche.

Inevitabile il cosiddetto sovraffollamento, un superlativo utile a far capire l’insopportabilità della situazione che ha provocato la condanna dell’Italia della Cedu, la Corte europea dei diritti umani, per violazione dell’art. 3 della Convenzione, per trattamenti disumani e degradanti.

Questo marchio d’infamia, intollerabile per il paese di Cesare Beccaria, fu affrontato con misure per ridurre di un poco le presenze, con norme di limitazione delle conseguenze dei danni subiti dai detenuti attraverso indennizzi risibili e con la misurazione asfittica dello spazio vitale della cella. Fu stabilito anche lo stato d’emergenza delle carceri da parte del ministro Angelino Alfano e fu nominato un commissario per l’edilizia penitenziaria; per fortuna il piano di costruzione di nuove carceri fece una misera fine, contestato anche dalla Corte dei conti. Sarebbe invece stato indispensabile, e lo è tuttora, un grande piano di ristrutturazione degli edifici, sulla base di progetti di una architettura fondata sui criteri della bellezza.

Il messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, l’unico del suo mandato, sulla contraddizione insopportabile del carcere non provocò una discussione decente e fu anzi frettolosamente archiviato. Nessuna discussione ulteriore per una svolta impegnativa.

Così ci si è trascinati nel dominio incontrastato della ordinaria amministrazione, con la sola preoccupazione di cancellare dal dizionario della politica la parola discontinuità.

Purtroppo per i gestori del potere burocratico, è piombata dal cielo o dalle viscere della terra una vera emergenza, la pandemia da Covid-19. Nel marzo 2020, una gestione scriteriata degli effetti che essa avrebbe potuto comportare nelle carceri provocò numerose rivolte facendoci tornare indietro di decenni e rappresentò una vera Caporetto della amministrazione penitenziaria. Nel carcere di Modena successe il finimondo e la protesta si risolse in tragedia. La morte di tredici detenuti è stata rapidamente archiviata come un dettaglio marginale, sull’altare di una ricostruzione fantastica di una rivolta pilotata dalla mafia per ottenere l’amnistia. Pochi hanno voluto prendere coscienza della realtà del carcere, ridotto a luogo di emarginazione e di marginalità, come emergeva in modo lampante dall’assalto all’infermeria invece che all’armeria. L’immagine di detenuti che si attaccano al flacone di metadone è davvero allucinante e disperante. Grazie alla tenacia del Comitato che insiste a chiedere precise informazioni su che cosa sia accaduto in quelle ore e nelle modalità dei trasferimenti in carceri lontani dal luogo del delitto e grazie a un racconto di Enrico Deaglio forse qualche brandello di verità potrà emergere soprattutto per la denuncia di alcuni detenuti in relazione alla morte di Salvatore Piscitelli, una delle tredici vittime. Questo è un caso non di malasanità, ma di un comportamento doloso e subalterno del servizio sanitario pubblico che si sarebbe sottratto al dovere di effettuare visite mediche alla partenza e all’arrivo per garantire il diritto alla vita, alla salute e a certificare la presenza o l’assenza di lesioni o segni di percosse.

I casi di Sassari e di Bolzaneto, rispettivamente nel 2000 e 2001, bruciano ancora come esempi di organizzazione di violenza italica e di macelleria messicana. Come rimangono non archiviabili le morti di Cucchi, Aldrovandi e molti altri, colpiti da stigma e considerati cose, non persone.

Molti si sono affannati a immaginare soluzioni ragionevoli per far diminuire il numero dei detenuti, nel tentativo di far coincidere la capienza regolamentare con la presenza reale, dalle proposte dei Garanti a quelle di Magistratura democratica, ma nei fatti si è solo inscenato un balletto su detenzioni domiciliari accompagnate dalla sorveglianza dei braccialetti, dall’ipotesi di aumentare i giorni di liberazione anticipata e di concedere licenze premio per chi è già in misura alternativa. Intanto gli arresti hanno cominciato a risalire e quindi si cerca di svuotare il mare con un cucchiaino.

Mi convinco sempre di più che proprio in un momento di crisi, anzi nel fuoco della crisi, si dovrebbe manifestare la capacità di disegnare un quadro di riforme profonde.

Per il carcere l’agenda è scritta da anni. Una grande riforma, per un carcere dei diritti.

Si dovrebbe cominciare dalla riscrittura di una politica intelligente e ragionevole sulle droghe, decriminalizzando il consumo di tutte le sostanze e legalizzando la cannabis; all’opposto, in Parlamento si è impegnati a sventare il pericolo che venga approvata una norma che cancella la previsione dei fatti di lieve entità, il che farebbe aumentare ancora di più il numero dei detenuti per un semplice spinello; il paradosso è che l’idea non è solo di Salvini ma era anche della ministra Lamorgese, che poco prima del Covid minacciava un decreto legge in quella stessa direzione che provocherebbe l’arresto immediato di migliaia di giovani, oltretutto considerato che già i due terzi degli accusati di questa fattispecie vanno in galera, abusivamente, come dichiarato in una recente audizione alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati da Antonino Maggiore, direttore centrale per i servizi antidroga presso il Ministero dell’Interno.

Scelte di decriminalizzazione e di legalizzazione porterebbero, invece, la popolazione detenuta a diminuire di almeno 20.000 persone e il carcere, come extrema ratio, potrebbe così essere limitato ai reati gravi contro la persona e l’ambiente, a quelli finanziari ed economici e di criminalità organizzata, permettendo di giocare sul serio la sfida dell’art. 27 della Costituzione.

Proprio in questo momento, reso ancor più delicato dalla pandemia, va posto come priorità il riconoscimento del diritto all’affettività e alla sessualità delle persone recluse. L’approvazione della legge relativa, che è in discussione alla Commissione Giustizia del Senato, con Monica Cirinnà relatrice, renderebbe chiaro che le restrizioni in atto in questo periodo sono una parentesi eccezionale. Sarebbe evidente che le barriere di plexiglas di protezione dal contagio non vogliono indicare un ritorno alla cupa stagione della afflizione dei banconi, contestati dalle recluse di San Vittore nel 1981 con il memorabile “salto del bancone” per abbracciare i propri compagni.

Un altro tema, come si usa dire divisivo, non dovrebbe essere trascurato: quello dell’ergastolo e del suo superamento, facendo propri l’insegnamento di Aldo Moro e il monito di Papa Francesco che non ha avuto timore di affermare che “l’ergastolo è il problema, non la soluzione”. Nessuno ricorda che il 30 aprile 1998 il Senato con 107 voti favorevoli, 51 contrari, 8 astenuti approvò il disegno di legge per l’abolizione della pena senza fine; è davvero inimmaginabile che il Parlamento attuale almeno discuta dell’ergastolo ostativo?

Pochi anni fa è stata compiuta una vera rivoluzione, con la chiusura degli Opg, i vecchi manicomi giudiziari, completando così il disegno riformatore della legge 180 del 1978; sarebbe decisivo per respingere pericolose nostalgie, completare la riforma abolendo il muro dell’imputabilità e il doppio binario del Codice Rocco.

Infine, andrebbe sollecitata la discussione della proposta a prima firma del deputato Riccardo Magi di modifica dell’art. 79 della Costituzione, con lo scopo preciso e puntuale di restituire potere e responsabilità al Parlamento in materia di amnistia e indulto, riscrivendo un rinnovato statuto degli strumenti di politica criminale, proponendone una rilettura costituzionalmente orientata al divieto di pene inumane e alla finalità rieducativa del diritto punitivo.

Un programma minimo e ambizioso insieme. Sono consapevole della chiusura del Parlamento e del silenzio della politica. Ma questa crisi rischia di distruggere la democrazia e il diritto e allora, come spesso nella storia, di fronte a quel silenzio bisogna lavorare affinché le riforme vengano imposte dal basso, dai movimenti e dall’interno stesso della società, favorendo il protagonismo e la soggettività di chi vive nel carcere.

 

Fonte: Franco Corleone, Centro per la Riforma dello Stato



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