Ferrara e oltre. Prisoners lives matter
Basta scorrere i titoli degli ultimi mesi per rendersi conto che in Italia abbiamo una emergenza democratica: chiamerei così, e mi pare appropriato e non retorico, il problema di quella violenza istituzionale che si esercita sui corpi di chi è recluso, e che appare ormai drammaticamente routinaria e fuori controllo. Mi pare si debbano leggere in questa prospettiva, e non come una mera sommatoria di singoli accadimenti, le tante violenze avvenute nelle carceri e approdate a una visibilità, anche solo considerando gli ultimi tre anni, vuoi attraverso denunce, vuoi tramite la segnalazione in procura di qualche garante, vuoi per un’azione di singoli, famiglie e associazioni che hanno strappato il velo del silenzio. Sono troppo personalmente esperta di carcere per non sapere che è così da sempre: che le celle di sicurezza delle caserme hanno pareti imbrattate di sangue e merda, che da sempre esistono le “squadrette” che irrompono e picchiano, che speciali e massime sicurezze e 41 bis sono il regno della violenza impunita, che se mai qualcuno si sogna di denunciare dopo due minuti si trova una denuncia per oltraggio e offesa e magari violenza a pubblico ufficiale – in una asimmetria di potere destinata a un esito ovvio. Che il corpo di chi è recluso, reclusa arriva ultimo, ultimo oggetto di cui preoccuparsi dopo la sicurezza e dopo tutto: sono ancora qui a piangere le mie compagne morte nell’incendio delle Vallette dell’89, morti “accidentali” in assenza di responsabilità, morti, pertanto, da cui non si è imparato nulla.
E però, questi mesi dopo le 13 morti del 9 marzo dello scorso anno, mi paiono aver segnato un passaggio, una accelerazione, un crescendo che dovrebbero suggerire alla politica, almeno a quella attenta a una cultura costituzionale, la chiara percezione appunto di una emergenza democratica,
La procura di Santa Maria Capua Vetere – non esattamente un gruppo di antagonisti… – non ha esitato a battezzare la sua inchiesta sui pestaggi nel locale carcere “La mattanza della settimana santa”, e non per vezzo retorico, ma basandosi sui fatti: 144 agenti sono stati denunciati per aver massacrato i detenuti rei di aver protestato pacificamente, con una battitura delle sbarre, il 6 aprile a causa della preoccupazione per il dilagare del Covid-19 dietro le sbarre; per averli torturati, con pratiche lesive dei corpi ma anche della dignità; per averli minacciati in caso di denuncia; per aver simulato, a loro discolpa, una rivolta che non c’è mai stata (ricorda qualcosa, a Genova…). Mattanza istituzionale, non schegge impazzite, se è vero come è vero che allo scopo il Provveditorato campano aveva tempestivamente approntato un nucleo speciale di intervento, strumento extra-ordinario, evidentemente valutando non sufficiente la ordinaria “legittima violenza istituzionale” adottata fino ad allora.
A gennaio, a Sollicciano, scatta la denuncia per tortura e le misure cautelari per nove agenti, accusati di pestaggi e violenza avvenuti nel 2018 e nel 2020, all’inizio fatti passare sotto silenzio con il noto meccanismo della contro denuncia per oltraggio e offesa, che ora implica una denuncia anche per falso ideologico. I fatti del 2020, in particolare, rivelano una violenza inaudita e gratuita, scattata per una protesta verbale per una telefonata ai famigliari non autorizzata. La sproporzione tra il fatto in sé e la reazione degli agenti lascia allibito lo stesso magistrato: ma è proprio anche questa mancanza di misura la cifra di un potere incontrollato e di una violenza arbitraria. E, ancora, emerge un “sistema”, quando il medico collude, minimizza, non vede, certifica la idoneità del detenuto a restare in isolamento, fino a quando una collega non interviene.
A San Gimignano, nel 2018, pestaggi e torture a un detenuto in isolamento, arrivano oggi dieci rinvii a giudizio, e anche qui un medico connivente, anch’egli denunciato.
Nel 2019 a Torino, grazie alla garante dei diritti, emergono violenze e torture, questa volta non episodiche ma continuative, notte dopo notte, dal 2017 al 2019, quasi un rito, nelle celle di detenuti spesso tra i più fragili psicologicamente. Una prassi senza ragione alcuna, mero esercizio sadico di potere, conclusosi con un rinvio a giudizio di 25 persone, direttore incluso.
E fino ai nostri 13 morti e ai pestaggi che hanno seguito i trasferimenti, e sono continuati nel tempo, anche a rivolte finite e sedate, pestaggi a freddo, punitivi e deterrenti, di cui abbiamo qui dato via via conto e notizia.
Infine, arriviamo a Ferrara: il tribunale ha emesso la prima sentenza italiana per tortura, in primo grado, in relazione a fatti del 2017, ai danni di un detenuto in isolamento, denudato, maltrattato, umiliato e picchiato senza ragione, durante una perquisizione. Imputati tre agenti, uno condannato per tortura e, anche qui, una infermiera connivente. Il reato, precisamente, è quello di tortura di stato, il più grave, perché a opera di un pubblico ufficiale.
Avere anche in Italia, buona ultima tra i paesi europei e pur con una formulazione limitativa, istituito nel 2017 il reato di tortura ha colmato una imperdonabile falla del nostro Codice penale, che ha coperto, lasciato nel silenzio o banalizzato fatti gravissimi. Si sta aprendo uno squarcio nell’opacità vigente sino a ieri circa la “qualità” della violenza istituzionale agita nelle nostre carceri.
E però questo non basta, i processi giudicano fatti specifici e condotte individuali. Qui, siamo di fronte a “ordinarie questioni di sistema”, per la frequenza degli episodi, certo, ma anche per il copione che si ripete, la falsificazione dei fatti con cui si è convinti di farla franca, la connivenza di altre figure, e che siano spesso figure sanitarie deve fare scandalo, i silenzi e la cecità dei dirigenti e delle direzioni.
Come sempre, il diritto penale faccia il suo lavoro, ma non può fare quello che spetta alla politica. Che questa violenza istituzionale sia il portato strutturale dell’istituzione totale, lo sappiamo bene; ma mentre si intraprende il viaggio per “liberarsi dalla necessità del carcere”, si devono organizzare, sulla via, dei presìdi a tutela della vita di chi in carcere è rinchiuso, rinchiusa.
C’è una emergenza democratica, e non riguarda solo la polizia penitenziaria ma tutte le polizie: il minimo sarebbe una Commissione parlamentare di inchiesta sullo stato delle cose, delle culture, della formazione e delle prassi, del monitoraggio e del controllo, e soprattutto sul sistema di accountability, cioè della responsabilità attiva che le istituzioni competenti devono agire a tutela e garanzia di diritti fondamentali, mettendo in campo tutte le risorse e i poteri che possono su questo giocare, ed essendone chiamate a rispondere. Sarebbe già qualcosa.
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