Dopo Trump arriva Biden, ma il Medio Oriente resta in bilico

Dopo Trump arriva Biden, ma il Medio Oriente resta in bilico

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L’anno nuovo si apre come si è chiuso quello della pandemia. Gli americani possono fare quello che vogliono contro l’Iran e gli israeliani anche tutto quello che gli altri non possono mai fare: andare contro ogni legge internazionale. Una sintesi del doppio standard che, in negativo, si applica a iraniani, palestinesi, curdi, libanesi, iracheni, yemeniti, e a tutti coloro che in genere non intendono obbedire. Questi popoli, al massimo, possono ottenere “concessioni” ma non sono titolari di “diritti”. Il Patto di Abramo ha sancito questo stato delle cose.

Nel mezzo stanno Erdogan e Putin: il primo funzionale al secondo. Non soltanto perché il Sultano della Nato si contrappone a Mosca e allo stesso tempo tratta con la Russia in Libia e in Siria ma anche perché serve agli Stati Uniti a contenere l’influenza russa, come testimonia la guerra del Nagorno-Karabakh contro gli armeni sostenuta dai turchi e dalle armi israeliane. Biden detesta Erdogan (lo attaccò anche da vice di Obama) ma si confronterà con lui non in base alle antipatie o alle credenziali democratiche ma alla sua utilità sul fianco orientale dell’Alleanza atlantica.

A un anno dall’assassinio il 3 gennaio scorso a Baghdad da parte americana del generale iraniano Qassem Soleimani e del suo luogotenente iracheno Al Muhandis possiamo valutarne in pieno le conseguenze. Questo è stato l’anno dell’attacco all’Iran _ esemplificato anche dall’uccisione a novembre attribuita al Mossad dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh _ e del Patto di Abramo in funzione anti-Teheran tra Israele e le monarchie del Golfo, seguite poi da Sudan e Marocco. Più che una stabilizzazione è un salto in avanti verso nuove cancellazioni dei diritti dei popoli: in Medio Oriente l’amministrazione Biden, che si insedia il 20 gennaio, già oscilla sotto il peso delle decisioni di Trump.

La contrasta eredità di Obama nelle primavere arabe del 2011 _ sostegno in Egitto ai Fratelli Musulmani, guerra a Gheddafi e appoggio alla destabilizzazione della Siria _ aveva avuto come sbocco positivo il 14 luglio 2015 l’accordo sul nucleare con l’Iran che aveva fatto infuriare Israele e gettato nel panico l’Arabia saudita e le monarchie del Golfo. Trump è uscito unilateralmente da questo trattato internazionale e stabilito nuove regole del gioco che poi tanto nuove non erano (risalgono al presidente democratico Roosevelt nel 1945): le monarchie dovevano pagare “cash” e con acquisti di armi americane la protezione Usa aggiungendo al conto la normalizzazione con Israele, venduta agli arabi dei petrodollari come una questione di sopravvivenza di fronte alla vera o presunta minaccia dell’Iran.

Così sono arrivati gli “incentivi”. Netanyahu, che si prepara nuove elezioni in marzo, ha incassato da Trump il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale e l’annessione del Golan e poi nel 2020 gli è bastato soltanto un colpetto di freno sull’annunciata annessione della Cisgiordania per portare a casa le nuove alleanze con gli arabi. Al patto di Abramo hanno aderito Emirati e Barhain, poi è arrivata la normalizzazione tra Israele e il Sudan, quindi quella con il Marocco.

L’Egitto di Al Sisi è già della partita: sta in piedi con i soldi degli Emirati e dei sauditi avendo come compito ideologico e repressivo di eliminare i Fratelli Musulmani. Anche il generale Haftar in Cirenaica se aderisse al Patto di Abramo verrebbe pienamente riciclato.

Il sovrano Mohammed VI ha messo in cassaforte gli incentivi finanziari ma soprattutto si è aggiudicato il riconoscimento americano della sovranità marocchina sul Sahara occidentale. L’occupazione marocchina dei territori Sahrawi come quella israeliana della Palestina è contraria al diritto internazionale e a ogni risoluzione Onu sull’autonomia e l’autodeterminazione.
Queste ultime sono due parole che nella rudimentale filosofia del Patto di Abramo anche i curdi devono dimenticare, come del resto gli stessi yemeniti.

L’autonomia dei curdi iracheni ormai è ridotta al lumicino: il premier Al Khadimi preferisce incontrare Erdogan sulle operazioni anti-Pkk che i “suoi” curdi di Erbil o Suleimanya. Mentre quelli del Rojava, alleati occidentali contro l’Isis, avevano già visto sulla loro pelle nel 2019 cosa significava il ritiro americano dal nord della Siria. La realtà è che sia gli americani che gli europei sono pronti sacrificare i curdi in ogni momento se Erdogan si tiene in casa tre milioni di profughi e modera le sue pretese nel Mediterraneo orientale dove si scontra con l’asse Francia-Grecia-Cipro-Egitto-Israele-Emirati.

Il Patto di Abramo ha suddiviso anche gli yemeniti tra buoni e cattivi. Secondo il Financial Times il dipartimento di Stato Usa prima del 20 gennaio si prepara a inserire gli Houthi alleati dell’Iran nella lista delle organizzazioni terroristiche. È uno dei prezzi che chiede l’Arabia Saudita, insieme al protettorato sullo Yemen, per il riconoscimento di Israele voluto dal principe assassino Mohammed bin Salman e finora frenato dal sovrano Salman.

Ma probabilmente è ancora in Iraq che forse dobbiamo aspettarci nuove operazioni americane e israeliane anti-iraniane e contro le milizie sciite. Lo sostiene un recente reportage di Le Monde e ieri anche il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif. L’anno che verrà già somiglia molto, troppo, a quello appena trascorso.

* Fonte: Alberto Negri, il manifesto



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