Pandemia. La lotta di classe a colpi di virus

by Marco Revelli * | 6 Dicembre 2020 9:05

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Che il virus, come la sfortuna, non fosse cieco, anzi ci vedesse benissimo – che fosse dotato di una solida coscienza di classe alla rovescia, colpendo molto più duro in basso che in alto -, l’avevamo capito.

E fin dalla prima ondata. Ce lo dicevano le mappe più che non le tabelle dell’Iss, quelle (poche, purtroppo, ma eloquentissime) con la distribuzione dei contagi per quartieri nelle grandi città, con le Ztl (Parioli a Roma, Crocetta e Centro a Torino, Magenta e Sempione a Milano) quasi risparmiate dal morbo e quelle periferiche (l’oltre raccordo anulare, le barriere, l’aldilà del cerchio dei viali) flagellate. Ora lo certifica anche il Censis, rivelando che ne è consapevole il 90,2% degli italiani.

L’epidemia ha scavato voragini negli strati popolari, sia sul piano del bios, nella nuda vita, considerata spesso vita di scarto, comandata al lavoro quando le fasce alte si difendevano col lockdown, costretta a elemosinare un posto sempre più raro in terapia intensiva mentre per gli altri c’era il reparto «Diamante» al San Raffaele; sia sul piano dell’oikos ovvero dell’«economia domestica» dove le misure anti-contagio (certo sacrosante) hanno operato con effetti inversamente proporzionali alla collocazione lungo la piramide sociale: tanto più duramente quanto più fragili erano le figure colpite. Fino ai penultimi, i lavoratori marginali, le categorie deboli della manifattura e soprattutto dei servizi, quelli a tempo determinato, delle imprese piccole e piccolissime, che temono ad ogni scadenza la «discesa agli inferi della disoccupazione» (è già toccato a 400.000 di loro).

E gli ultimi, i precari, quelli della «gig economy», del lavoro a giornata («casuale» lo chiama il Censis), del sommerso e del nero, quelli che, appunto, se non lavorano non mangiano perché non hanno cuscinetti di grasso messi da parte per i tempi difficili per la semplice ragione che non hanno mai vissuto «tempi facili». Se va bene ricorreranno al silver welfare offerto da nonni o genitori pensionati, altrimenti saranno soli a contendersi un reddito di cittadinanza benedetto ma avaro.

Sono un esercito questi «ultimi». 5 milioni, calcola il Censis, che aggiunge che «hanno finito per inabissarsi senza rumore» (e l’espressione mette i brividi). Ma accanto a questi «sommersi» ci sono anche, sia pur molto ma molto meno numerosi, i «salvati». Quelli che dalle ricadute economiche della pandemia sono stati meno danneggiati. O che addirittura ne sono stati avvantaggiati. Quel 3% di italiani che guadagnano più di 1 milione di dollari (sic) l’anno e possiedono il 34% della ricchezza nazionale – compresi i 40 miliardari che da soli monopolizzano 165 miliardi – non hanno subito decurtazioni. Anzi, annota il Censis, «sono aumentati sia in numero che in patrimonio durante la prima ondata dell’epidemia».

È tutta qui la «questione italiana»: in questa spaccatura orizzontale tra una «una società sfibrata dallo spettro del declassamento sociale», da una parte, e un ristretto ceto possidente irresponsabile e avaro, pronto ad alzare barricate alla sola parola «tassa patrimoniale» e a rivendicare per sé – pensiamo alle raffiche di esternazioni di Carlo Bonomi – tutto, comprese le briciole contese alle deprecate e «improduttive» misure «assistenziali». Non la falsa contesa tra «garantiti» e «non garantiti» (a cui comunque pare credere l’85% degli intervistati) ma quella, ben più strutturale, e reale, tra ricchi e poveri. I primi, sempre più esclusivi e chiusi, i secondi sempre più numerosi e dimenticati. Per questo le raccomandazioni del Censis, secondo cui si imporrebbe «un ripensamento strutturale per la ricostruzione» e la messa in campo di un «progetto collettivo che spazzi via la soggettività egoistica e proterva in cui per decenni abbiamo creduto», appaiono sacrosante. Ma poco suscettibili di ascolto da parte di un ceto di decisori pubblici che nella sua grande maggioranza, trasversalmente agli schieramenti politici, appare sordo e cieco (anche se purtroppo mai muto).

Lo stesso Governo Conte, che a mio avviso aveva operato relativamente bene nel corso della prima ondata, tenendo ferma l’istanza prioritaria della salvaguardia sanitaria, nella transizione estiva si è arreso ai «vizi strutturali» del Paese – per paura delle voci grosse dei negazionisti, dei confindustriali, degli zangrilli e degli sgarbi quotidiani e dei briatori smargiassi – privilegiando la ricchezza sulla miseria, l’economia sulla salute, le discoteche sugli ospedali, i bonus vacanze sul reclutamento del personale medico e paramedico… Lo si sapeva da subito che la seconda ondata ci sarebbe stata e sarebbe stata peggiore. Lo dicevano scienziati e ministri. Eppure si è arrivati a ottobre con i trasporti immutati, la sanità territoriale scassata come prima, il personale ospedaliero insufficiente, un welfare allo sbando secondo i vecchi, devastanti dogmi neoliberisti. Potremmo concludere che questo è davvero, come diceva Norberto Bobbio, un paese «irredimibile». O che comunque, a redimerlo, toccherà a ognuno di noi, con spirito ferocemente eretico

* Fonte: Marco Revelli, il manifesto[1]

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