Liberazione dei pescatori italiani: vincono Haftar e la Turchia, pivot della crisi
È un comunicato breve quello che il comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl), Khalifa Haftar, ha rilasciato ieri alla stampa in seguito all’incontro della mattina nel suo quartier generale di Rajma (Bengasi, nell’est della Libia) con il primo ministro italiano Conte e il ministro degli Esteri Di Maio.
Un semplice «elogio» per il ruolo di Roma «per risolvere la crisi libica». Nessuna menzione dei 18 marittimi di Mazara del Vallo rilasciati ieri dopo 108 giorni di detenzione da parte dei suoi uomini.
Il generale è stato ieri il gran vincitore: dato da mesi per finito dopo la sua fallimentare campagna militare contro Tripoli (vinta dal premier al-Sarraj grazie al sostegno della Turchia), isolato perfino dai suoi partner stranieri, ieri il capo dell’Enl ha mandato un messaggio inequivocabile: nella partita libica, bisogna fare ancora i conti con lui.
DEL RESTO LA LIBIA è un Paese in guerra – altro che «porto sicuro» come sostengono in Italia – e la forza si misura in uomini e armi e Haftar può ancora contare su entrambi. Il fatto che si siano dovuti precipitare da lui Conte e Di Maio per risolvere una crisi che stava diventando sempre più una patata bollente per Palazzo Chigi è stato un suo grosso successo mediatico.
MENO PER L’ITALIA: per la liberazione dei suoi pescatori, il governo è stato costretto a fare la sua ennesima piroetta in terra libica: riavvicinarsi all’ex «nemico» (Roma è con al-Sarraj) divenuto meno ostile – se non proprio «amico» – quando sembrava poter vincere la sua guerra (dicembre 2019).
Un’inversione che in Tripolitania è stata letta da molti come un «tradimento» al punto da spingere il Governo di Accordo nazionale (Gna) di al-Sarraj a cercare qualche altro partner, qualcuno di fidato che la guerra contro il «terrorista» Haftar voleva farla non solo a chiacchiere, ma con i fatti.
Un ruolo che il turco Erdogan ha saputo interpretare alla perfezione e che gli permette ora di farla da padrone in Libia. Un dato su tutti: se l’Italia ha impiegato 108 giorni per liberare i suoi marittimi, la Turchia ne ha impiegati solo alcuni la scorsa settimana per il rilascio di una sua nave da cargo sequestrata dalle stesse autorità libiche dell’est.
Il gap abissale di tempo nel risolvere i due sequestri traduce plasticamente il differente peso politico tra Roma e Ankara nel dossier libico, sbugiardando il presunto protagonismo italiano decantato da Di Maio.
L’ITALIA VA DA HAFTAR quando, solo a inizio mese, aveva firmato a Roma un accordo congiunto di cooperazione tecnico-militare con il ministro della difesa del Gna an-Namrush. Roma continua a fare il doppio gioco: amica dei cirenaici, ma anche e soprattutto di Tripoli che, tradotto nella Libia orientale, vuol dire stare con i «crociati ottomani» (i turchi).
Una posizione ambigua in un conflitto intra-libico niente affatto finito. I tanti incontri tra le parti tra Tangeri e Tunisi non hanno portato ancora i frutti sperati: l’altro giorno il Foro del Dialogo politico sponsorizzato dall’Onu non è riuscito a raggiungere un consenso sul meccanismo per selezionare la prossima leadership politica che gestirà la fase di transizione in vista delle elezioni previste per il 24 dicembre del 2021. C’è poi la questione delle armi che continuano a fluire nel Paese facendosi beffa dei divieti dell’Onu ed europei.
Senza poi dimenticare la tensione interna in Cirenaica, ma soprattutto in Tripolitania dove imperversano milizie armate difficilmente contenute da un potere centrale debole che proprio a esse aveva fatto ampio ricorso nella guerra fratricida tra ovest ed est.
CERTO, I PASSI POSITIVI ci sono: qualche giorno fa per la prima volta dopo anni la Banca centrale libica ha trovato un cambio unificato per il dinaro libico (4,48 al dollaro). Così come è aumentata la produzione di petrolio a 1,28 milioni di barili al giorno, un valore insperato fino ad alcune settimane fa quando i terminal petroliferi restavano chiusi per ordine di Haftar.
Ma l’escalation è sempre possibile. «Qualsiasi accordo che non si basi sulla rinuncia alla violenza resta fragile e non resisterà», ha detto due giorni fa an-Namrush. Haftar lo sa bene mentre si gode la sua vittoria.
* Fonte: Roberto Prinzi, il manifesto
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