by Alessandra Briganti * | 27 Dicembre 2020 19:55
Dopo le fiamme, il gelo e la neve. Si aggravano le condizioni in cui versano migliaia di migranti intrappolati nel cantone di Una Sana, Bosnia nord-occidentale, tappa obbligata per il passaggio dei rifugiati in Croazia. Mercoledì scorso il campo profughi temporaneo di Lipa, a 40 km dalla cittadina di frontiera di Bihac, è stato quasi completamente distrutto da un incendio, lasciando circa 1400 persone senza un posto in cui alloggiare.
Se alcuni hanno trovato riparo nell’unica tenda risparmiata dalle fiamme, altri hanno passato le scorse notti all’addiaccio in edifici abbandonati o tra le foreste che circondano il campo.
L’incendio è avvenuto il giorno in cui l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (Oim) aveva iniziato il ritiro del personale dal campo per protestare contro le autorità locali che non avevano attrezzato la tendopoli per l’inverno. Il campo profughi di Lipa, aperto ad aprile scorso, era stato pensato come una soluzione temporanea per garantire un alloggio ai migranti rimasti fuori dai centri di accoglienza e contenere così la diffusione del contagio.
Intanto mentre montavano le proteste dei residenti a Bihac e Velika Kladusa contro la presenza dei migranti in città e si susseguivano episodi di violenza ai danni dei profughi, le autorità locali avevano disposto il divieto di ingresso dei migranti nel cantone di Una Sana, ordinando inoltre la chiusura del centro di accoglienza di Bira a Bihac che ospitava circa duemila migranti. Questi ultimi sono stati trasferiti nel campo di Lipa dove peraltro la tensione, sfociata in alcuni scontri con la polizia, era già alta.
La situazione, resa precaria per via del sovraffollamento del campo, è diventata insostenibile: i migranti sono stati tenuti per mesi in cattività in condizioni disumane, privi di acqua corrente, elettricità, riscaldamenti in un luogo per di più isolato. Intorno poi cresceva l’intolleranza da parte dei residenti, alcuni dei quali si sono organizzati in piccoli gruppi su facebook per dare la caccia ai migranti che tentavano di passare il confine, come se non fossero abbastanza le violenze della polizia croata arrivata persino, come denunciato da un’inchiesta del Guardian, a stuprare i migranti in cammino.
Insomma, una spirale di violenza cieca e disumana a cui in questi ultimi mesi si è aggiunta la negazione di una seppur minima soglia di accoglienza finora garantita da autorità, ong e organizzazioni internazionali. Da ottobre, infatti, si sono susseguiti numerosi appelli dell’Ue, degli Stati Uniti e dell’Oim perché i migranti venissero ricollocati nuovamente nel centro di accoglienza di Bira, in modo da prevenire una catastrofe umanitaria come quella che va profilandosi in questo momento.
Di fronte all’inazione delle autorità locali, l’Oim aveva lanciato nei giorni scorsi un ultimatum: se non si fosse provveduto all’approvvigionamento elettrico ed idrico, l’organizzazione avrebbe cessato ogni attività nel campo. Ma l’ultimatum, esteso fino a mercoledì scorso nel tentativo di trovare una soluzione in extremis, non ha sortito l’effetto sperato.
Le autorità locali hanno reiterato il loro rifiuto ad aprire anche solo temporaneamente il Bira, respingendo una decisione del governo bosniaco che aveva ordinato il ricollocamento dei migranti nell’ex fabbrica di Bihac. E mentre l’Oim si accingeva a ritirare il personale dal campo, a Lipa è divampato l’incendio. Una cartolina dall’inferno che brucia nel cuore d’Europa.
* Fonte: Alessandra Briganti, il manifesto[1]
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