Presidenziali USA. Le città si blindano per il timore di una sollevazione civile

by redazione | 3 Novembre 2020 15:57

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Quei chilometri di favolose vetrine in centro erano sempre state un asset, una risorsa nella dura competizione di ogni business. Ora sono un problema. Migliaia di carpentieri sono da ieri al lavoro, nel centro di Washington come a Manhattan, negli scintillanti centri commerciali di Boston come a Chicago. Ricoprono le vetrine di tavole di compensato pesante. Si chiama boarding up, inscatolare, sembra la preparazione per l’arrivo di un uragano e in effetti lo è: l’uragano Donald. Negli Stati uniti è arrivata la paura di votare.

Per la prima volta nella stralunata storia elettorale nordamericana, il timore più grande non è che vinca questo o perda quell’altro: è la sollevazione civile. Tutte le grandi città americane si stanno preparando alla notte elettorale con gli stessi piani d’emergenza delle calamità naturali. Vetrine rivestite di assi. Polizia precettata.

Guardia nazionale schierata nelle caserme. Donald Trump ha fatto capire in ogni modo possibile che non accetterà altro risultato che la sua vittoria. Ha slegato mute di avvocati in tutto il paese con l’incarico di contestare sistematicamente le procedure e i risultati a lui sfavorevoli. Ha chiamato a raccolta i governatori repubblicani, i loro segretari di stato – responsabili di gran parte del processo elettorale – e i tribunali amici di nomina politica, su fino alla decisiva Corte suprema.

E’ la lezione di Florida 2000, quando il più alto tribunale del paese bloccò d’imperio l’estenuante riconteggio dei voti, regalando lo stato e la presidenza a George W. Bush. Vent’anni dopo, quella lezione è stata portata all’estremo.

WalMart aveva tolto dai suoi negozi le armi e le munizioni: in caso di sollevazione e di saccheggi, il colosso della grande distribuzione voleva evitare che i suoi fucili servissero ad armare – e gratis – una rivolta. Inspiegabilmente, quattro giorni fa ha cambiato idea e ha rimesso i mitra in bella vista sugli scaffali. Non è una bella notizia per gli eserciti di agenti schierati a difesa di una notte elettorale che si annuncia esagitata. E lunga, estremamente lunga. Molto più lunga di una notte.

A differenza di quasi tutte le elezioni precedenti, quando il vincitore veniva definito e annunciato in giornata con la classica telefonata di “concessione” dello sconfitto, in molti stati il risultato sarà definito dopo giorni dal voto, forse settimane. E’ il tempo necessario perché arrivino ai centri di scrutinio le decine di milioni di voti postali che sono stati già espressi – hanno già votato quasi 100 milioni di americani – e che questi voti attraversino le maglie strette e differenziate delle varie legislazioni statali.

Gelosissimi della propria indipendenza, gli stati hanno regole elettorali diverse, e diversamente interpretabili. Alcuni considerano validi i voti postali solo se arrivano entro il 3 novembre, altri li considerano validi se sono stati espressi entro il 3 novembre, altri ancora pongono limiti temporali per l’arrivo…

In questo labirinto si muovono i letali avvocati del trumpismo. In Pennsylvania contestano la possibilità di conteggiare i voti postali che arrivino dopo il 3 novembre: il governatore democratico Tom Wolfe, che ha recentemente aperto a questa possibilità, da oggi trasmetterà uno spot televisivo pagato con fondi statali che invita i cittadini ad attendere “anche qualche giorno” l’esito del voto.

In Texas i repubblicani hanno chiesto di gettare al macero 127mila voti nella Harris County, un’area pesantemente democratica che circonda Houston: la Corte suprema dello stato aveva rigettato il ricorso, un tribunale federale ha invece accettato di discuterlo. In Nevada un ricorso dei legali repubblicani cerca di bloccare il conteggio dei voti nella Clark County, una zona che comprende Las Vegas, contestando il software che analizza le firme degli elettori sui documenti.

E così via, in un florilegio di ricorsi e di incastri legali che risale la catena alimentare della giustizia americana fino al predatore apicale, la Corte suprema federale. Dove oggi la conservatrice Amy Coney Barrett ha preso possesso del suo nuovo ufficio, ultima super-giudice nominata da Trump (grazie al caso, alla morte o dimissione di giudici precedenti e all’insistenza il presidente ha nominato tre dei nove giudici supremi).

Per scaldare l’opinione pubblica in attesa dei ricorsi, il piano del trumpismo è di dichiarare vittoria ogni volta che sia anche vagamente possibile, senza attendere i voti postali. Tanto che Twitter ha anticipato che aggiungerà un’etichetta molto visibile (warning label) a ogni account che rivendichi una vittoria prima che siano proclamati i risultati ufficiali

* Fonte: Roberto Zanini, il manifesto[1]

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