Iran. I colpi di coda dell’asse Trump-Netanyahu: l’assassinio «preventivo» della pace

Iran. I colpi di coda dell’asse Trump-Netanyahu: l’assassinio «preventivo» della pace

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Siamo ormai arrivati all’assassinio «preventivo», con la solita licenza di uccidere incorporata nel Mossad. L’anno si chiude – almeno per il momento – come si era aperto, quando il 3 gennaio gli Usa ammazzarono a Baghdad con un drone il generale iraniano Qassem Soleimani.
Con l’uccisione in Iran di Mohsen Fakhrizadeh, definito sui nostri media il «padre dell’atomica iraniana» – una bomba che Teheran non ha mai avuto ma Israele sì – in Occidente si incrociano pericolosamente false notizie come questa, con la politica della terra bruciata intorno alla repubblica islamica voluta da Trump e Netanyahu.

In realtà Trump ce lo siamo meritato scrivendo scempiaggini che rischiano di fare apparire giustificato un eventuale attacco diretto all’Iran. Ed ecco che Netanyahu e il Mossad hanno anticipato Trump e dato il via libera a far fuori un altro scienziato iraniano, antica specialità dei servizi israeliani. Colpire direttamente l’Iran, come vorrebbe Trump per uscire dalla Casa Bianca da effimero trionfatore e non da sconfitto qual è, potrebbe causare una reazione troppo pericolosa anche per Israele.

Trump, che ha riconosciuto Gerusalemme capitale, l’annessione del Golan e gli insediamenti illegali in territorio palestinese con l’ultimo viaggio di Mike Pompeo, ha dato molto a Israele ma una guerra aperta contro l’Iran è troppo anche per Netanyahu: con dei processi sulle spalle e al governo in condominio con l’ineffabile Gantz (per altro mai al corrente di nulla) non può permetterselo.

Il premier israeliano dovrà trattare con Biden, convincerlo a mantenere le sanzioni a Teheran e vendergli il patto di Abramo con le monarchie dl Golfo, esteso dal Medio Oriente al Mar Rosso, al Corno d’Africa, come il più grande obiettivo strategico della coppia Usa-Israele per soffocare l’Iran, limitare la Turchia e frenare l’espansione cinese tra Africa e Medio Oriente.

È la vecchia strategia del «doppio contenimento», un tempo applicata a Iran e Iraq, che fa leva sui conflitti regionali. Ma con delle varianti. Tra i democratici di oggi alla segreteria di Stato c’è Blinken, legato a filo doppio a Israele, favorevole nel 2011 ai bombardamenti in Libia e Siria, uno dei complici del disastri di Hillary Clinton, e che negli omicidi mirati troverà appoggio nella nuova capa dei servizi, la signora Avril Haines, specialista in droni. Con loro c’è pure Jake Sullivan, nuovo consigliere della sicurezza nazionale, clintoniano e consulente di Obama sul nucleare iraniano. Questa è la prima linea di Biden, definita dalla stampa Usa quella degli gli «interventisti liberali»: sono loro che dirigeranno eventuali negoziati con Teheran.

Ma l’agenda di Biden per la ripresa delle trattative sull’accordo abbandonato e stracciato da Trump nel 2018 deve fare i conti con la tattica della terra bruciata e il pericoloso avventurismo del presidente uscente, oltre che con la diffidenza dell’Iran dove il presidente Hassan Rohani è alle strette con la Guida Suprema Ali Khamenei e l’ala dura dei pasdaran. Trump è diventato un cane sciolto. Due settimane fa ha fatto fuori il capo del Pentagono Mark Exper, contrario a uno «strike» contro Teheran, mentre un portavoce della Difesa esprimeva la preoccupazione che il presidente potesse avviare «operazioni coperte», espressione orwelliana per dire che il presidente potrebbe colpire direttamente l’Iran.

Poi Washington ha tirato fuori la notizia che il 9 agosto scorso agenti israeliani avrebbero ucciso a Teheran Al Masri, storico capo di Al Qaeda: la «pistola fumante» che l’Iran appoggia il terrorismo. Quindi Trump ha inviato in Medio Oriente Abram Elliot, consigliere negli anni’80 dei governi massacratori del Salvador e del Guatemala, per definire nuove sanzioni a Teheran e accordo con Israele e le monarchie del Golfo. Sanzioni puntualmente arrivate con il viaggio del segretario di stato Pompeo in Medio Oriente e che hanno colpito la Fondazione degli Oppressi, il maggiore conglomerato economico che risponde direttamente alla Guida Suprema.

A questo punto l’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh era già stato programmato. La testa dello scienziato iraniano con ogni probabilità è stata gettata sul tavolo del principe saudita Mohammed bin Salman (MBS) che a Noem sul Mar Rosso qualche giorno fa ha incontrato Pompeo e Netanyahu accompagnato dal capo del Mossad Yossi Cohen. Gli israeliani stanno facendo di tutto per invogliare Riad a entrare nel Patto di Abramo con Emirati e Bahrain. Ma sia il principe che suo padre, il declinante re Salman, si tengono stretta la carta della normalizzazione con Israele per giocarsela con l’amministrazione Biden, insistendo su un improbabile accordo di pace con palestinesi ma soprattutto sulla fine delle pressioni negli ambienti liberali di Washington per una democratizzazione del regno saudita che si è distinto per la repressione brutale di ogni dissenso e il macabro assassinio del giornalista Jamal Khashoggi. Ma, perdinci, 450 miliardi di dollari di commesse saudite di armi agli Usa valgono pure qualche omicidio. Sarà Biden a rinunciarci?

Ecco a che servono gli assassini preventivi: è l’eredità del duo Trump-Netanyahu, sono le «linee guida» per la nuova amministrazione. Tutto questo aspettando Biden. O forse Godot

* Fonte: Alberto Negri, il manifesto



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