by redazione | 4 Ottobre 2020 9:47
Mentre il nord subiva i flagelli di un clima mutante e fuori controllo, tra morti e dispersi, esondazioni, frane, crolli, smottamenti, bombe d’acqua e venti furiosi, Venezia, città fra le più esposte all’inclemenza del tempo «fuori di sesto», ha vissuto ieri una giornata di sollievo
Non come nei giorni della tempesta Vaia e di altri disastri, in cui era stata investita in pieno (la drammatica e non occasionale sincronia è ben documentata in un libro recente, Il monito della ninfea. Vaia, la montagna, il limite, di Diego Cason e Michele Nardelli, Bertelli Editori), il maltempo l’ha solo sfiorata e la stessa marea, attesa in forma eccezionale, sopra il metro e 30 sul medio mare, si è tenuta un po’ al di sotto.
Cosa principale, il primo vero stress test del Mose è riuscito: buona notizia per chiunque ami Venezia. Si poteva tuttavia dare per ovvio che, dati l’investimento di risorse, la mobilitazione di competenze e lo strenuo impegno del potere politico, si riuscisse prima o poi a sollevare le paratoie, anche in condizioni peggiori di quelle tranquillissime del primo test, lo scorso 10 luglio. Bene. A chi addiziona la propria gioia di trionfalismo, va però ricordato qual è, da sempre, il vero ABC (e D) della critica al Mose.
A) Aver scelto l’opera dalla gestazione più lunga e complicata, a fronte di alternative scartate grazie a corruzione e forzature politiche inaudite: Venezia avrebbe vissuto giornate come questa – «al riparo» – già da qualche lustro, e si sarebbero risparmiati miliardi e danni ingentissimi per le acque alte finora succedutesi.
B) Il vero test strategico riguarderà l’effettiva capacità del Mose di misurarsi con i mutamenti climatici e, dunque, con il crescente livello del mare e della frequenza e portata delle maree senza far morire la laguna, che vive dello scambio quotidiano con l’Adriatico: più si chiude e più la si colpisce. Venezia va salvata dalle acque (alte), ma va salvata nelle acque (lagunari), nel suo ecosistema.
C) Più chiusure significano anche più duri colpi all’attività portuale, uno dei principali antidoti alla monocultura turistica e, dunque, un fattore di vitalità socioeconomica che rischia la crisi.
D) Per il tipo di opera che è, la funzionalità del Mose risulterà costosissima, e rischia di andare a scapito delle risorse necessarie a tutelare e ricostruire l’ecosistema finora manomesso e a rigenerare socio-economicamente la città, come è successo nei troppi anni in cui i fondi della Legge speciale sono tutti stati destinati alla «grande opera».
I punti chiave sono il B e il C, che in realtà sono uno soltanto. Né il corale respiro di sollievo di stamattina, né tantomeno il trionfalismo, ci dicono niente di risolutivo. Se il meccanismo reggerà anche oltre il test odierno, se il Mose darà un po’ di tempo a tutela dalle maree maggiori – ma non da quelle medie, le più frequenti in città – saranno questi i punti sui quali avviare una revisione del sistema. A fronte di tali epocali problemi, il Mose resta spiazzato e inadeguato, esattamente come le politiche che hanno stravolto clima e territorio e ancora proseguono imperterrite.
La questione è più che mai aperta, e occorre lavorarci non guardando al passato, pur senza dimenticarlo: guardando al futuro e al modo in cui già oggi si manifesta drammaticamente.
* Fonte:Gianfranco Bettin, il manifesto[1]
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