Rapporto ONU: l’Afghanistan è il conflitto più letale al mondo per i civili

by redazione | 28 Ottobre 2020 12:12

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I Talebani uccidono di più, i bombardamenti afghani sostituiscono quelli americani e il conflitto cambia geografia. Si potrebbe sintetizzare così il rapporto della missione dell’Onu a Kabul (Unama) sulle vittime civili nei primi 9 mesi del 2020, dall’1 gennaio a fine settembre.

I MORTI SONO 2.117, 3.822 i feriti. Complessivamente, una diminuzione del 30% rispetto allo stesso periodo del 2019. Ma i dati sono ambivalenti e il confronto con l’anno scorso – uno dei più sanguinosi del conflitto – rischia di restituire un’immagine troppo rassicurante. Il 2020 si è aperto con l’accordo, a febbraio, tra Talebani e Usa sul ritiro delle truppe straniere, è proseguito con l’inizio, il 12 settembre, del negoziato tra Talebani e Kabul, ma la violenza continua. E in alcune province – Balkh, Samangan, Jawzjan, Badakhshan, Ghor, Kapisa, Logar, Khost e Bamyan – è perfino aumentata rispetto al passato. Nonostante i colloqui in corso a Doha, il Paese «rimane uno dei posti più letali al mondo in cui essere un civile», come certificato pochi mesi fa anche dal Global Peace Index 2020 dello Institute for Economics & Peace, secondo il quale l’Afghanistan è il Paese meno pacifico al mondo (su 163 esaminati) per il secondo anno consecutivo, seguito da Siria, Iraq, Sud Sudan e Yemen.

PER IL RAPPORTO DI UNAMA reso pubblico ieri, tra le vittime civili più di 4 su 10 sono donne o bambini. I bambini costituiscono il 31% di tutti i morti e feriti, le donne il 13%. Nel caso dei bambini la diminuzione è del 47% rispetto al 2019, ma il bombardamento aereo di una settimana fa sulla madrasa del distretto di Baharak, nella provincia di Takhar, e l’uccisione di 13 bambini, mostra quanto il pericolo sia persistente. E come il conflitto stia cambiando. La missione dell’Onu esprime preoccupazione per l’aumento del 70% delle vittime causate dai bombardamenti aerei delle forze afghane, che oggi causano l’8% delle vittime totali. L’aumento va ricondotto all’accordo tra Washington e i Talebani: da marzo, gli americani non bombardano più, o quasi. Per questo aumentano le vittime delle bombe sganciate dagli afghani, ma nel complesso diminuiscono del 34% quelle riconducibili alle forze governative – sono il 28% oggi -, tra le quali Unama annovera anche gli stranieri, quest’anno responsabili del 2% delle vittime (83 morti, 30 feriti). Senza i bombardamenti americani, il bilancio delle vittime appare più “rassicurante”.

LE FORZE ANTI-GOVERNATIVE – Talebani, Provincia del Khorasan (branca locale dello Stato islamico) e «anonimi» – sono responsabili del 58% delle vittime (1,278 morti e 2,172 feriti). Nel caso dello Stato islamico, nel 7% dei casi: la riduzione è del 61% rispetto al 2019. Qui sta un’altra ragione per i numeri “rassicuranti”: lo Stato islamico colpisce meno. Ai Talebani va attribuito il 45% delle vittime. E dopo l’accordo con gli americani, uccidono di più rispetto al 2019 (6%), a dispetto dei tre periodi di tregua – una delle quali durata 8 giorni – legati al negoziato. Nel complesso causano il 32% in meno di feriti e morti, perché ci sono meno scontri sul terreno (che causano comunque il 38% delle vittime) e attacchi suicidi. La diminuzione potrebbe essere attribuita anche a un altro fattore, la crescita del 51% degli attentati senza paternità: il 7% del totale, cui corrisponde un aumento degli omicidi mirati.

I RICERCATORI DI UNAMA non lo dicono, ma a Kabul non sono pochi a pensare che i Talebani stiano facendo piazza pulita di oppositori presunti o reali – dai mullah dissenzienti ai leader tribali poco ossequiosi – senza alzare troppo la voce. Mentre a Doha, dove è in corso il negoziato con i rappresentanti del governo, rifiutano di accettare il cessate il fuoco umanitario

* Fonte: Giuliano Battiston, il manifesto[1]

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