by Cristina Piccino, Giovanna Branca * | 27 Ottobre 2020 9:09
La risposta dei protagonisti dello spettacolo italiano alla chiusura di cinema e teatri imposta dal nuovo Dpcm di domenica scorsa è stata compatta. Lettere, petizioni, appelli indirizzati al premier Conte e al ministro della cultura Franceschini firmati da registi, autori – Nanni Moretti, Gianni Amelio, Marco Bellocchio, Giuliano Montaldo, Paolo Taviani – dalle associazioni di categoria oltre a sigle come 100autori, Anac, Afic… che si oppongono a una decisione – in pratica unica in Europa ad oggi con l’esclusione della città di Bruxelles – che rischia di seppellire per sempre un settore già duramente provato dall’emergenza pandemica. Anche gli assessori alla cultura di diverse città italiane – da Filippo Del Corno (Milano) a Luca Bergamo (Roma), Tommaso Sacchi (Firenze) Paola Piroddi (Cagliari) – in un documento condiviso hanno preso posizione contro la chiusura che definiscono «ingiustificata» visto che sale e teatri «più di ogni altro hanno saputo adottare misure efficaci e responsabili nel contrasto alla diffusione epidemica».
UNA REAZIONE importante a quello che viene percepito come una specie di trastullo: «I nostri artisti che ci fanno divertire» disse Conte lo scorso maggio, ma la perdita degli introiti dello spettacolo fino al 24 novembre è stata stimata intorno ai 64 milioni di euro, mentre il volume di incassi su base annua si aggira sui 3,146 miliardi. Reazione che ha spiazzato persino i destinatari delle richieste, o almeno il ministro Franceschini che ieri ha replicato con un messaggio sulla pagina Facebook del ministero per ribadire la responsabilità della sua decisione: «Forse chi critica non ha capito la gravità della situazione che stiamo vivendo» dice nel video. E assicurando ancora una volta il suo impegno perché la chiusura «sia il più breve possibile», e per gli aiuti all’intero settore aggiunge: «Non è stata una decisione gerarchica, per stabilire cosa fosse più importante tra palestre, cinema, teatri e così via. Dovevamo ridurre la mobilità delle persone», riferendosi probabilmente al fatto che sembra che la chiusura sia stata determinata dallo scontro col suo omologo dello sport, il 5S Spadafora, che si era impuntato su palestre e piscine (!) con una mediazione che alla fine ha chiuso tutti.
COME CHE SIA, LE RAGIONI di questa decisione appaiono davvero «casuali» e molto poco «scientifiche». Non ci sono infatti evidenze di contagi nelle sale cinematografiche o teatrali, anzi tra i diversi spazi pubblici sono quelli che hanno applicato le norme di sicurezza con maggiore attenzione, studiando nei mesi di chiusura ogni singolo passaggio dei protocolli; lo hanno provato eventi come la Mostra di Venezia e l’appena conclusa Festa del cinema di Roma, le Biennali Teatro e Danza, gli spettacoli di RomaEuropa , e naturalmente la programmazione quotidiana delle sale cinematografiche. Le persone siedono distanziate, c’è l’obbligo di indossare la mascherina, le uscite sono indirizzate dal personale. Lo studio pubblicato da Agis (Associazione generale italiana dello spettacolo) parla di un solo contagio registrato fra la data della riapertura – il 15 giugno – a inizio ottobre, su 347.262 spettatori in 2.782 spettacoli monitorati tra lirica, prosa, danza e concerti .
Non solo. A fronte dei normali orari dei negozi aperti regolarmente, del rientro fissato per mezzanotte o le undici – secondo le regioni – che non impedisce di muoversi sino al «coprifuoco», la motivazione addotta da Franceschini – «Limitare gli spostamenti» – suona davvero stonata, per non dire che si può andare a messa e non al cinema o a teatro, e qualcuno dovrebbe spiegarci la differenza tra persone radunate in chiesa e persone sedute in una sala.
DA PIÙ PARTI è stato avanzata l’ipotesi che per il cinema la «vera» ragione sia stata la pressione dei grossi circuiti, le multisale, assai più in sofferenza delle sale indipendenti, che possono attuare una programmazione differenziata – un titolo secondo le fasce orarie – o di quelle sale legate a un’offerta di cinema d’autore. I multiplex si sono invece visti mancare quel cinema su cui si basa la loro offerta, cioè i blockbuster Usa, che la paralisi del mercato statunitense ha rimandato all’anno prossimo – e addirittura al 2022 – o ha spinto le major a optare direttamente per lo streaming.
Altri pensano che una fetta dell’esercizio preferisca tenere le serrande abbassate in attesa di tempi migliori – e continuando a usufruire dei sostegni economici come la cassa integrazione per i dipendenti – difatti diverse sale a giugno avevano deciso di non riaprire, rischiando però ancora di più la scomparsa. È vero che i dati di incasso non sono stati complessivamente incoraggianti – l’ultimo weekend il box office è stato di 1 milione e mezzo di euro, l’82,27% in meno dello stesso periodo l’anno scorso – ma le realtà più piccole sono state comunque premiate dai loro spettatori, e in generale se queste ipotesi fossero reali si sarebbe potuta studiare una proposta mirata alle specifiche realtà.
La situazione cambia per i teatri, molti dei quali appena all’inizio di stagione, o sul punto di aprirla che però nelle proposte di eventi e manifestazioni delle scorse settimane hanno avuto ottimi risultati. Prendiamo il già citato RomaEuropa: dallo scorso 8 settembre al 25 ottobre ha presentato 44 spettacoli dal vivo per 12.848 spettatori – e teatri sempre pieni nei limiti ovviamente previsti. «Ogni serata è stata un dono straordinario che ci ha visto uniti, seppur nel distanziamento, con artisti e pubblico. Ringraziamo le istituzioni e i nostri partner italiani e internazionali per il loro sostegno e per aver condiviso idee e progettualità comuni. E un grazie speciale al pubblico che ci ha seguito con passione in questa avventura», ha dichiarato il direttoreFabrizio Grifasi, al termine, domenica sera, di Coefore Rock‘n’Roll di Enzo Cosimi, divenuto il titolo di chiusura.
VALE NATURALMENTE oltre il discorso economico – gravissimo per tutti i lavoratori dello spettacolo la cui condizione è di totale incertezza e precarietà nonostante appunto le ripetute promesse del governo – la questione simbolica, con l’idea di un «tempo libero» un po’ superfluo – passata già nel refrain dei «beni essenziali» dei mesi addietro, o di intrattenimento – quando invece la filiera dello spettacolo produce lavoro, beni, e se annullata significherà disoccupazione e crisi per moltissimi, e un impoverimento culturale ancora più profondo per tutti.
LAST BUT NOT LEAST: nel suddetto video Franceschini dice che da parecchi mesi «stiamo lavorando ad una piattaforma della cultura italiana che potrà offrire in streaming la possibilità di seguire uno spettacolo a chi non ha la possibilità di andare in un teatro.» E se invece fosse questo il punto, la questione? Quella «Netflix della cultura» che il ministro profetizzava con enfasi già lo scorso aprile – quando diceva anche che riaprire i musei era possibile, i cinema e i teatri meno – la piattaforma italiana per offrire l’eccellenza culturale a tutto il mondo a pagamento. Chissà
* Fonte: Cristina Piccino, Giovanna Branca, il manifesto[1]
Foto di Vlad Vasnetsov da Pixabay
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