La questione dei contratti nel Paese con i salari più bassi d’Europa

La questione dei contratti nel Paese con i salari più bassi d’Europa

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In questi giorni sono emerse la durezza e l’incomprensione sul rinnovo dei contratti, così come un certo silenzio da parte del Governo.

Quest’ultimo non è obbligato a intervenire nelle dispute tra le parti sociali, ma potrebbe ricordare a tutti le priorità economiche, industriali e politiche.

Se il Governo conviene sulla necessità che il mercato determini in prima battuta la distribuzione del reddito, e sia il disegno e ridisegno del fisco ad assicurarne l’equità, altrettanto le parti sociali non possono affrancarsi da questi obiettivi, perché lo Stato è un agente al di sopra delle parti, ma molto più che semplice arbitro.

L’Italia attraversa indiscutibilmente una fase sociale ed economica delicata; un po’ per gli effetti legati alla pandemia e un po’ per i noti e mai risolti problemi di struttura che hanno condizionato il tessuto economico-sociale nel suo insieme (è la riflessione che proponiamo alla discussione politica in un saggio di prossima pubblicazione sulla storica rivista Moneta e Credito).

In generale, il sistema economico sembra resistere alle intemperie intervenute nel corso degli ultimi vent’anni (ci riferiamo alle crisi del 2008 e del 2011); ma passo dopo passo abbiamo perso terreno rispetto al consesso europeo: produzione e valore aggiunto a breve termine reggono il confronto, tuttavia l’allontanamento rispetto a Francia e Germania è progressivo.

Da un lato la particolare organizzazione della produzione (estremamente, forse troppo, duttile e flessibile), dall’altro lato una dinamica salariale in costante contrazione relativa rispetto alla media europea.

Senza dare troppi numeri, il salario medio per addetto in Italia è passato dall’essere meno 5.381 (2002-2007) sulla media europea (21.705), ad essere a meno 7.650 euro (2013-2018) rispetto al salario medio europeo (27.283 euro). Probabilmente l’organizzazione dell’economia nazionale e la minore remunerazione del lavoro hanno permesso la sopravvivenza, ma non dovrebbe essere questo l’orizzonte di un Paese maturo.

Se indaghiamo la dinamica di struttura, infatti, emerge qualcosa di pericoloso e vincolante per le prospettive del Paese. Da un lato gli investimenti in termini assoluti non hanno recuperato quanto sarebbe stato necessario; dall’altro l’intensità tecnologica degli stessi (la quota di investimento collegata alla ricerca e sviluppo) è migliorata soprattutto perché è calato il denominatore (investimenti).

Certamente la spesa in ricerca e sviluppo ha registrato un passo in avanti passando dall’1,1% all’1,4% del PIL, ma rimane troppo distante dalla media europea (prossima al 2,5%).

Accanto a queste considerazioni dobbiamo sottolineare anche le ore lavorate per addetto; in Italia si lavora comparativamente troppo e probabilmente male: le ore lavorate annue per occupato dell’Italia superano le 1.700 ore, contro le poco meno di 1.500 ore della Francia e le poco meno di 1.400 ore della Germania.

La direzione da intraprendere dovrà però essere nuova, almeno nel senso di abbandonare il paradigma della sostituibilità fra capitale e lavoro: l’esperienza europea ci avverte in modo inequivocabile che il modello vincente accumula capitale di qualità e con esso lavoro meno intenso e meglio pagato. La fiscalità, in questo contesto appare del tutto residuale.

Rispetto all’attuale discussione sul rinnovo dei contratti, il riferimento è quello dei metalmeccanici, qualcosa sembra essersi rotto, nonostante il settore manifatturiero necessiti di interventi e prospettive che riducano i vincoli di struttura del settore.

La manifattura rischia di perdere la sfida di paradigma, se immagina di rimanere sul mercato con le stesse caratteristiche mostrate fino ad oggi. In un quadro di insieme comparato con i Paesi europei utilizzati come riferimento (Germania, Francia e Spagna), con valori ponderati per addetto, la produzione registra un gap negativo di 26 mila euro; il valore aggiunto è a meno 16 mila euro; gli investimenti sono a meno 1.650 euro; il salario annuo è a meno 10.706 euro; l’intensità tecnologica è inferiore del 21,3%.

A nostro avviso sono tutti numeri che dovrebbero essere alla base della riflessione contrattuale.

È del tutto evidente che il manifatturiero necessita di un pavimento pubblico (strutturale) nella tecnologia e negli investimenti che il settore da solo non può realizzare; ripiegare ancora sullo spread salariale nazionale rispetto ai Paesi di riferimento non è una strategia di successo per un’economia avanzata.

Per strano che possa sembrare, alla manifattura servirebbe una sorta di “garanzia del profitto”, ma non può essere questo il solco del futuro dell’industria italiana. Servirebbe piuttosto un pavimento tecnologico e di investimenti; questo è l’unico pavimento plausibile in una società capitalistica, e sorprende la rimozione da parte di molti soggetti di questa ovvietà

* Fonte: Roberto Romano, Anna Variano, Paolo Maranzano, il manifesto



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