Flop di Immuni: niente contact tracing, solo in mille hanno usato l’app
Il numero di tamponi è arrivato a superare quota 170 mila, numeri inimmaginabili solo pochi mesi fa. Il problema è ciò che succede dopo il test: per ogni caso positivo, i Servizi di igiene e sanità pubblica delle Asl dovrebbero avviare l’indagine epidemiologica, intervistando i positivi e individuando le persone a rischio da contattare a loro volta. Ma ormai questa procedura è saltata del tutto nelle aree in difficoltà come il Lazio, la Puglia, la provincia di Milano e non solo.
«IL QUESTIONARIO delle Asl richiede almeno un’ora di tempo. Poi ci vuole un’altra mezz’ora per raggiungere i contatti», spiega al manifesto Stefania Salmaso, che ha guidato il Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Iss fino al 2015, quando l’allora presidente Walter Ricciardi smantellò una struttura che oggi sarebbe stata utilissima. «Considerando che ogni Asl deve ripetere quest’operazione per decine o centinaia di contatti ogni giorno, è evidente che il personale non è sufficiente». Dopo la prima ondata sono state fatte assunzioni. L’obiettivo del decreto Rilancio era di mettere in campo un tracciatore ogni diecimila abitanti. In realtà si è andati anche oltre: i tracciatori ora sono circa 9.200, cioè 1,5 ogni diecimila abitanti. «Ma questi sono numeri sufficienti in tempi normali. Adesso non bastano assolutamente».
L’affanno è diffuso. A Napoli una Asl può dover svolgere ricerche su oltre 400 persone. «Ogni unità operativa territoriale ha circa 15 addetti e ormai quasi tutti fanno il tracing, dal dirigente medico al tecnico, all’infermiere, all’impiegato amministrativo», spiega Lucia Marino della Asl Napoli 1, destinataria di 32 nuovi assunzioni solo per il contact tracing. «Fino a 20 giorni fa riuscivamo a chiamare le persone in pochissimo tempo e a mettere tutti in quarantena, ora siamo in ritardo perché sono veramente tanti», spiega Maria Rosa Fiorentino, assistente sanitaria a Bologna. Altri sottolineano la scarsa collaborazione delle stesse persone contattate: «Alcune accettano la situazione, prendono atto della quarantena, altre mettono in dubbio il tuo lavoro», racconta Rebecca Giazzi, che fa lo stesso lavoro a Piacenza. «Alcune volte veniamo insultati, ma andiamo avanti. Le indagini epidemiologiche sono fondamentali».
PER CORRERE AI RIPARI, dall’incontro tra i ministri Speranza e Boccia con i presidenti di regione è scaturito un bando per duemila operatori da inviare nelle Asl: 500 saranno addetti all’inserimento dei dati, 1500 a tamponi e tracciamento dei contatti. Non sarà personale sottratto ad altre Asl, ma «liberi professionisti» o persone senza un’occupazione fissa, che potranno dedicarvisi fino alla fine dell’emergenza. Inoltre, per accelerare le diagnosi i test rapidi antigenici potranno essere effettuati anche in farmacia.
E IMMUNI? La app creata dal ministero dell’Innovazione doveva automatizzare il lavoro di tracciamento e allerta, sgravando le strutture sanitarie. Dopo un avvio balbettante, ora è installata sul 20% degli smartphone e ogni giorno si registrano oltre 60 mila nuovi download. Ma per ora incide poco: su 232 mila casi da giugno a oggi, finora sono stati solo 1134 (0,5%) i casi in cui la app è entrata in funzione, allertando 22 mila contatti. Le regioni in cui la app si è attivata più volte sono la Lombardia, con 261 casi (lo 0,7%), l’Emilia-Romagna con 100 casi (0,7%), il Lazio con 76 (0,4%).
Ma le Asl in molte regioni fanno come se Immuni non esistesse. Il Veneto ha ammesso candidamente di ignorarla per le perplessità sui criteri per individuare i contatti. Immuni è utilizzata poco o niente anche in Campania dove i casi segnalati da Immuni si contano sulle dita di una sola mano: meno dello 0,02% dei casi totali nonostante sia installata sul 9% dei dispositivi. 20 casi in Sicilia, 25 in Sardegna e 27 in Puglia segnalano che in tutto il sud la app è boicottata dalle stesse Asl, incaricate di fornire agli utenti positivi il codice necessario a diramare l’allerta ai contatti.
COSÌ, LA VERA APP utilizzata per il tracciamento oggi si chiama Whatsapp. «Nella maggioranza dei casi sono gli stessi pazienti a inviare messaggi ai possibili contatti per segnalare la propria positività», racconta Salmaso. Soprattutto nelle scuole, è normale scoprire via chat se un alunno o un docente è in quarantena e se sia il caso di fare un tampone. Risultato: i test vengono prescritti senza una reale valutazione medica, e spesso inutilmente. Mentre chi non frequenta la chat “giusta”, magari per problemi di lingua, rimane escluso dalla prevenzione
* Fonte: Andrea Capocci, il manifesto
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