Donald Trump positivo al Covid, sconvolte le presidenziali Usa

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Aggiornamento del 3 ottobre alle 11.30

Nella notte il presidente Trump è stato ricoverato all’ospedale militare Walter Reed di Washington D.C., dove gli sono state somministrate le prime dosi dell’antivirale Remdesivir e di un farmaco ancora sperimentale della ditta Regeneron a base anticorpi monoclonali contro la proteina spike del coronavirus. La Casa bianca afferma che il presidente, ricoverato con tosse e sintomi influenzali lievi, continua a lavorare dalla stanza presidenziale dell’ospedale e non c’è la necessità di passare le consegne al vice Mike Pence. Nel frattempo emergono nuovi contagi nella stretta cerchia presidenziale.

Ecco l’articolo in edicola, aggiornato alle 22.30 del 2 ottobre

La madre di tutte le battaglie si chiude ancora prima di cominciare. Alle 6.54 del mattino ora italiana il President Of The United States comunica al resto del mondo di essere positivo al Covid 19, lui e la First Lady. Potus e Flotus hanno il virus. Tonfo nei sondaggi. Tonfo in borsa. La campagna elettorale americana sembra finita. È finita. Deve essere finita.

IL CAPO DI TUTTI I NEGAZIONISTI, riduzionisti e miracolisti è vittima di quella «influenza che scomparirà un giorno come per miracolo» (27 febbraio), di quella «truffa» che gli avversari democratici «stanno politicizzando». Con tutti i forse e le prudenze di questo mondo, difficilmente Trump riuscirà mai a recuperare lo svantaggio che ha da mesi sul democratico Joe Biden. Gli sarebbe servito un mese di meeting oceanici, di incontinenze verbali declamate dal tavolo dello Studio Ovale, di tweet sparati a raffica. Molto probabilmente lo passerà a letto, quel mese. «Sintomi lievi», dicono i medici. «Era letargico», dice con più precisione lo staff della Casa Bianca. Prossimo tele-dibattito già annullato, il terzo e ultimo in forse, disdetto ogni incontro, viaggio e meeting fino a nuovo ordine: «Lavorerà da casa».

Che il Covid 19 avrebbe potuto decidere le elezioni era cosa nota, quasi certa. Che l’avrebbe fatto colonizzando i polmoni di uno dei contendenti è una svolta di cui è difficile ingigantire la portata. Chissà se oggi, in isolamento coatto nella sua casa di Washington mentre gli stregoni della campagna cercano un modo per piazzarlo davanti a una telecamera, Trump sente le maledizioni di quei 7 milioni e 288mila americani che sono risultati positivi dall’inizio della pandemia.

«L’ANNO SCORSO 37MILA americani sono morti di normale influenza e niente è stato chiuso, la vita e l’economia vanno avanti» (9 marzo). Ieri i morti americani erano 208.068 e altri arriveranno da qui al 3 novembre, notte elettorale a cui gli Usa potrebbero arrivare svuotati. Chissà se gli arrivano, le maledizioni dall’oltretomba. Come ha scritto un americano qualunque rispondendo al tweet presidenziale, Donald Trump è la prima causa di morte degli Stati uniti
È entrato dove ha potuto, il coronavirus, attraverso una bocca che non si chiude mai e che giammai ha voluto essere coperta da una mascherina: «Non la metterò mai» (3 aprile). Non l’ha messa alla convention repubblicana.

Non l’ha messa nei meeting di raccolta fondi, con molte mani da stringere e molte mucose repubblicane da avvicinare. Non l’ha messa nemmeno quando ha visitato una fabbrica di mascherine! L’ha sventolata davanti a Joe Biden per irridere il suo viso protetto poco prima dell’ultimo disastroso dibattito in tv – sapeva già del contatto a rischio e non ha detto niente a Biden, che ieri è stato testato ed è negativo.

SEMBRA UN MERITATO CASTIGO ma non è una reazione della natura offesa, è piuttosto la stolidità umana di chi ha subordinato la vita e la salute ai costi pubblici – e ancora peggio privati – di una nazione che deve far tremare il mondo e non tollera ostacoli. Chissà se è pentito della guerra santa alle mascherine cui ha intasato i social mentre i governatori democratici prescrivevano di girare con bocca coperta e le mani igienizzate: «Liberate il Minnesota, liberate il Michigan» (17 aprile), e quando qualche virginiano protestava contro la copertura obbligatoria imbracciando fucili d’assalto twittò «Liberate la Virginia e salvate il nostro grande Secondo emendamento», quello sul diritto di armarsi. Sì, prendete il virus a schioppettate, e vediamo chi vince.

Tra i leader minimizzatori, Donald Trump arriva buon ultimo al contagio, ma ci arriva col botto, secondo il ruolo che gli è proprio. Il premier britannico Boris Johnson, altro principe dei riduzionisti che ha a lungo cianciato di immunità di gregge, aveva comunicato il contagio il 27 marzo scorso: «Nelle ultime 24 ore ho sviluppato lievi sintomi», scrisse, e poi passò due settimane in ospedale e tre giorni in cure intensive.

IL 7 LUGLIO IL PRESIDENTE brasiliano Jair Bolsonaro annunciava il suo contagio in diretta tv, lui che era decisamente negazionista e aveva passato la festa americana del 4 luglio facendo bisboccia con l’ambasciatore degli Usa e tornando a casa con una «febbriciattola»: venti giorni di isolamento e grosse razioni di idrossiclorochina, il farmaco miracoloso che non fa nessun miracolo e soprattutto non guarisce dalla stupidità. Ma Johnson ha 56 anni e Bolsonaro è un ex militare di 67 anni: Donald ne ha 74, pesa oltre trecento libbre, si imbottisce di junk food e per «fare sport» intende giocare a golf con qualcun altro che porta le mazze. Precedenti americani? A Ronald Reagan spararono nell’81, ma aveva già giurato due mesi prima. Dwight Eisenhower ebbe un ictus, ma mancava oltre un anno alle elezioni. Questa volta mancano 32 giorni. E non c’è la giornata di recupero.

Lavorando nei pressi di Trump si erano già contagiati in tanti, compresi 25 agenti dei servizi segreti addetti alla sua sicurezza, ai quali aveva vietato le mascherine perché comunicavano un messaggio sbagliato – e ieri altri due, un giornalista e un press agent, mentre il panico corre nel Congresso e i parlamentari si chiedono l’un l’altro chi ha incontrato chi. Ma il presidente l’aveva sempre scampata.

IL CONTATTO GALEOTTO è stato con la bellissima Hope Hicks, 31enne ex modella introdotta dalla first figlia Ivanka, che gli ha fatto da capo della comunicazione finché ha dovuto ammettere di aver mentito all’intelligence «per proteggere il presidente» e pur dimissionaria è rimasta nel giro. Già malata in modo visibile, mercoledì si è arrampicata sull’elicottero presidenziale per andare e tornare dal Minnesota con Donald e Melania – mascherine neanche parlarne.

Poi, cena ufficiale alla Casa Bianca: «La fine della pandemia è in vista» (1 ottobre). Poche ore dopo, la catastrofe.

In attesa dei bollettini medici si scalda il vicepresidente Mike Pence, uno che non esiste (oltre un terzo degli elettori non conosce il suo nome) ma che è peggio di Trump, non si nota solo perché sta zitto e il suo capo occupa tutta la scena. Se Pence cade dalle scale, la terza in comando è… la speaker della Camera Nancy Pelosi. La più odiata avversaria politica che la Casa Bianca abbia mai avuto. E in questo ci sarebbe, se non giustizia, un po’ di poesia.

* Fonte: Roberto Zanini, il manifesto

Foto di Gerd Altmann da Pixabay



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