Sembrava eterno, Milo Djukanovic. Invece nelle elezioni di domenica scorsa l’uomo forte del Montenegro, al potere ininterrottamente da quasi trent’anni, ha perso vincendo una battaglia giocata fino all’ultima scheda. Il suo partito, i socialdemocratici del Dps, si è infatti piazzato primo nella corsa elettorale, ma ha perso seppur di un soffio la maggioranza in Parlamento.
A far cadere l’ultimo e più camaleontico leader della Lega comunista, non sono state le accuse di corruzione, il clientelismo, il malgoverno, il bavaglio ai media.
No, a far cadere Djukanovic è stato l’unico potere che non è riuscito a piegare al suo controllo, la Chiesa serbo-ortodossa. Al contrario: l’aver solo tentato di ridimensionarla con la controversa legge sulla libertà di religione approvata il dicembre scorso, è stata una mossa suicida per il politico montenegrino, che finora era riuscito a mutar pelle con il mutare delle stagioni: dalla crisi della Jugoslavia, alle guerre degli anni Novanta, dall’indipendenza del Montenegro dalla Serbia al suo collocamento nell’alveo della Nato.
Probabilmente Djukanovic avrà pensato che con quella mossa avrebbe spostato il tema della campagna elettorale dagli scandali di corruzione che hanno gettato delle ombre sul sistema da lui dominato, all’eterna questione dell’identità montenegrina. Il risultato è stato resuscitare la Chiesa ortodossa serba e soprattutto le sue frange più nazionaliste e fondamentaliste.
Il clero è sceso in piazza per mesi alla testa di migliaia di fedeli per protestare contro una legge che avrebbe avuto come effetto l’esproprio di oltre 700 luoghi di culto ortodossi. Alla vigilia del voto poi la Chiesa per la prima volta è scesa nell’agone politico, schierandosi con le forze dell’opposizione. E questo alla fine ha avuto un peso determinante: in termini assoluti i socialdemocratici di Djukanovic non hanno perso che poche migliaia di voti, eppure hanno registrato il peggior risultato mai ottenuto: al 99% delle schede scrutinate il Dps ha raccolto il 35% dei voti e 30 seggi, ossia un tonfo del 6% rispetto alle ultime elezioni del 2016.
A fare la differenza è stata la partecipazione al voto dei serbi, mobilitati dalla Chiesa. Se a livello nazionale l’affluenza ha superato il 76%, il dato più alto si è registrato nelle regioni del Nord, abitate prevalentemente da serbi, oltre che nella capitale, Podgorica. Si spiega così il balzo in avanti della coalizione filo-serba e pro-russa “Per il futuro del Montenegro”, guidata dal Fronte democratico, che si è aggiudicata 27 seggi con il 32.6% dei consensi. A seguire i due partiti del blocco civico, la coalizione liberale ed europeista “La pace è la nostra nazione” di Aleksa Becic, che con il 12,5% dei voti ha ottenuto 10 seggi, e i progressisti di “Nero e bianco” guidati dai verdi dell’Ura, che riescono ad eleggere 4 deputati con il 5.5% dei voti.
Queste tre coalizioni, peraltro molto distanti politicamente, raggiungono a malapena la maggioranza necessaria per governare, 41 su 81 seggi del Parlamento. Eppure lo scenario più plausibile all’indomani del voto è proprio quello di un governo tecnico a durata limitata sostenuto dalle opposizioni, che possa traghettare il Paese verso quello che è stato definito dal leader dell’opposizione Zdravko Krivokapic, il «nuovo Montenegro», un Paese sanato dalle lacerazioni provocate dal trentennio di Djukanovic al potere. E a questa costruzione sono stati invitati anche i partiti delle minoranze albanese e bosniaca perché, ha proseguito Krivokapic «non è possibile dar vita a un nuovo Montenegro senza di loro».
E forse ancor più difficile del costruire un governo post-Djukanovic, è immaginare un Montenegro che sia altro da ciò che è stato finora: uno Stato posto a tutela degli interessi del suo capo, incardinato nell’alleanza transatlantica e sulla strada dell’adesione all’Ue. Bisognerà aspettare per vedere il volto del nuovo Montenegro, ma le bandiere serbe sventolate domenica scorsa da Podgorica a Banja Luka, da Mitrovica a Belgrado, e le canzoni nazionaliste risuonate nelle comunità serbe dei Balcani, disegnano un futuro che ha l’amaro retrogusto passato.
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