Guerra in Siria, dopo il ritiro-fantasma gli Usa inviano altri soldati
Un centinaio di soldati statunitensi e sei veicoli blindati arriveranno a breve nel nord della Siria, rinforzo del contingente presente. In contemporanea aumenterà sia la frequenza dei pattugliamenti che i sistemi radar.
La notizia è stata data una fonte anonima dell’esercito degli Stati uniti, descrivendo la mossa come necessaria a evitare (o accendere, dipende dai punti di vista) un’escalation militar-diplomatica con la Russia nella regione. Alla fine di agosto due veicoli militari, uno russo e l’altro americano, si sono scontrati nel nord della Siria, sette soldati Usa sono rimasti feriti.
Scambio vicendevole di accuse, chi ha colpito chi nel bel mezzo del deserto: Mosca aveva dato comunicazione all’esercito Usa di sue pattuglie nella zona, la versione russa; quell’area è una «zona di sicurezza» in cui i russi non devono entrare, la versione statunitense.
Da cui la decisione di inviare altri uomini, ha detto venerdì il portavoce del Comando Usa, il capitano Bill Urban, senza nominare la Russia: serviranno a «garantire la sicurezza delle forze della Coalizione».
Ed ecco che, apparentemente di colpo, ritornano tensioni che si immaginavano sopite e le sirene di una guerra mai finita, quella siriana. Ma gli americani dal nord della Siria non si sono mai ritirati. Undici mesi fa, nell’ottobre 2019, l’annuncio del presidente Trump di ritirare le truppe Usa dava un occulto via libera alla Turchia del presidente Erdogan per invadere il nord della Siria, il Rojava a maggioranza curda.
Gli americani in ritirata verso il vicino Kurdistan iracheno avevano intercettato la rabbia dalle comunità locali, lanci di pietre e insulti ai blindati che lasciavano gli alleati preda della galassia turco-diretta di milizie islamiste e jihadiste.
Ma gli americani non hanno mai lasciato il nord della Siria. Hanno lasciato Manbij, la città simbolo della sconfitta dell’Isis inferta dalle Sdf (la federazione multietnica e multiconfessionale nata dall’esperienza curda del confederalismo democratico) dove erano di stanza per la regione di Deir Ezzor.
Appena una settimana dopo l’invasione turca, Trump candidamente annunciava l’intenzione di non ritirarsi più: «Un piccolo numero di soldati» rimarrà al confine centro-orientale con Giordania «a protezione del petrolio» perché «se entri dentro tieni il petrolio». Annuncio confermato dal Pentagono che parlava di una redistribuzione di una quota dei 2mila marines all’epoca presenti nel Rojava.
Infine, a fine novembre 2019, da Manama interveniva il generale McKenzie del Commando centrale Usa: «Non ho una data di fine» per il ritiro, aveva detto indicando in almeno 500 i marines che sarebbero rimasti al fianco delle unità di difesa curda in chiave anti-Isis. In un tripudio di ipocrisia, i soldati americani sono rimasti in Siria. E non sono 400 o 500, sarebbero almeno mille secondo quanto dichiarato dal Pentagono.
Ora aumentano di nuovo. Perché la missione non è accomplished: c’è ancora il grande punto interrogativo di Idlib, tuttora in mano ai jihadisti filo-turchi, ma soprattutto non c’è pace all’orizzonte né un effettivo avvio della ricostruzione, enorme business su cui si stanno lanciando da tutti, dai russi (ovviamente) a cui il presidente Assad ha garantito la parte del leone ai paesi del Golfo, alleati Usa.
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Onu: «Crimini turchi nel Rojava curdo»
Sono trascorsi 11 mesi dall’invasione turca del Rojava, la regione a maggioranza curda della Siria del nord. Mesi di occupazione illegale di un corridoio di terre lungo 100 km, di sfaldamento dell’amministrazione autonoma nelle comunità invase, di rapimenti, uccisioni, bombardamenti. E del taglio dell’acqua del fiume Eufrate che nei caldissimi mesi estivi ha assetato un milione di persone nella regione di Hasakeh.
Ora quei crimini finiscono in un rapporto dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani, guidato da Michelle Bachelet: «(La Turchia) lanci subito un’inchiesta imparziale, trasparente e indipendente sugli incidenti che abbiamo verificato», ha detto venerdì la Commissaria riferendosi in particolare alla brutale “gestione” locale affidata dai turchi ai gruppi islamisti che da anni impiega da Idlib ad Afrin fino al profondo nord-est siriano.
Il rapporto li chiama «crimini di guerra» e li elenca: almeno 116 civili uccisi, 463 feriti nel solo 2020 (quindi a invasione avvenuta), presa di ostaggi, torture, stupri di gruppo, sfollamenti e matrimoni forzati, saccheggi sistematici, distruzione di siti religiosi e storici.
Critiche arrivano anche in direzione delle Sdf, le Forze democratiche siriane, federazione multietnica e multiconfessionale guidata dai curdi, in riferimento alle condizioni di detenzione di migliaia di miliziani Isis ei loro familiari nel campo di Al-Hol. A rispondere è il Consiglio democratico siriano che ha invitato l’Onu a far visita al Rojava per indagare in prima persona le accuse
* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto
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