Media e razzismo. Le sparatorie di Kenosha e il linguaggio che difende chi spara

by redazione | 27 Agosto 2020 10:57

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Secondo il comunicato della polizia di Kenosha, Jacob Blake (ancora in pericolo di vita in ospedale, e destinato a restare paralizzato) è una delle persone «coinvolte in una sparatoria in cui sono coinvolti agenti di polizia» («involved in an officer involved shooting»).

Secondo il sito del Corriere della Sera, durante le proteste seguite all’episodio, «è scoppiata una sparatoria fra civili».

Come in tutte le guerre, il linguaggio è una delle prime vittime: eufemismo, manipolazione, tutti i sotterfugi possibili per non chiamare le cose col loro nome e non nominare i colpevoli. In entrambi questi esempi, un atto di violenza unilaterale di cui sono vittime degli afroamericani viene fatto passare come un conflitto reciproco: come se Blake fosse stato «coinvolto» nell’episodio allo stesso titolo dell’agente che gli ha sparato sette volte alla schiena senza motivo. E come se a Kenosha i «civili» si fossero sparati fra loro, e non fosse stato (come peraltro conferma il giornale) «un giovane bianco» a «brandire un lungo fucile semiautomatico e sparare sui manifestanti» – ammazzando altri due afroamericani e ferendone gravemente un terzo.

I verbi sono al passivo, i soggetti impersonali («afroamericano ucciso», non «poliziotto uccide»). La polizia e i vigilanti razzisti bianchi ammazzano (è successo a Detroit cinque giorni dopo l’assassinio di George Floyd; era successo a Charlottesville nel 2017), ma la parola «violenza» appare solo in riferimento alle proteste.

Questa modalità è insita nel cuore stesso della nostra cultura.
In Moby Dick, per esempio, la creatura demoniaca non è Ahab che dà la caccia alla balena per ucciderla ma la balena che si è difesa e gli ha strappato un gamba.

La violenza non è quella del cacciatore, ma della preda che si difende (e in tutti i western che abbiamo amato i violenti non sono i «pionieri» bianchi e le loro armate a cavallo che depredano e uccidono gli indiani, ma gli indiani che si difendono e cercano di impedirglielo).

Forse allora la violenza poliziesca e razzista sui neri è talmente ordinaria e normale («come un pulviscolo nell’aria», dice il campione di basket Kareem Abdul-Jabbar) che non ce ne accorgiamo nemmeno, per cui la rivolta del ghetto è percepita come il classico uomo che morde il cane. Forse la lezione di non violenza che gli afroamericani hanno insegnato al mondo da Martin Luther King in poi ci induce a credere che la loro pazienza e sopportazione siano infinite. O forse siamo talmente abituati a comandare che anche quando polizia e razzisti esagerano un po’ pensiamo di avere comunque noi il diritto di dettare i modi giusti ed educati con cui gli oppressi possono esprimere il loro malessere senza «degenerare» e «passare dalla parte del torto» (già immagino i commentatori liberal che affilano le penne per spiegarci, in caso di malaugurata ma non impossibile vittoria di Trump in novembre, che la colpa ce l’ha la «violenza» delle proteste).

E invece no. Quando Malcolm X diceva «con ogni mezzo necessario» non invocava necessariamente la violenza (non ha mai sparato un colpo in vita sua, e le Pantere Nere, con tutta la loro retorica sulle armi, sono state sistematicamente sterminate dall’Fbi), ma rivendicava agli oppressi il diritto di scegliere loro i modi e le forme della loro lotta. In un libro provocatoriamente intitolato In Defense of Looting – «in difesa dei saccheggi» – Vicki Osterveil sostiene che i saccheggi (o, se vogliamo, le riappropriazioni proletarie di massa) non sono una «degenerazione» o una contaminazione della protesta ma la sua espressione organica più alta: in una società basata sulla proprietà privata e le merci, e in cui la proprietà si è storicamente costituita sull’espropriazione, la schiavitù e la segregazione degli afroamericani, il saccheggio rimette in discussione il valore sacrosanto della proprietà, riporta le cose dal valore di scambio al valore d’uso come in una forma di redistribuzione, simile ai potlacht tradizionali indiani (o a certe questue rituali delle società contadine di cu parlava Alfonso Di Nola).

È possibile che Osterveil esageri – nelle rivolte urbana c’è di tutto, non è detto che in tutti i casi sia presente una intenzione cosciente di questo tipo; riprendersi le merci è anche un modo per riconoscerne il valore; e non è detto che anche in questo modo di ottenga qualcosa – ma non me la sento di darle tutti i torti. Posso anche non essere d’accordo, ma non sta più a quelli come me dirimere il giusto e lo sbagliato. Diceva lo stesso Martin Luther King: «i riots sono la voce degli inascoltati». Scrive Osterveil: «se i manifestanti di Ferguson non avessero dato fuoco a un paio di negozi, la loro protesta non avrebbe attratto l’attenzione del mondo più delle centinaia di proteste non violente di cui nessuno ha dato notizia».

Se tre mesi di proteste prevalentemente pacifiche non sono bastate a insegnare alla polizia a non ammazzare senza ragione, non resta che alzare il livello dello scontro e prendersela con i luoghi e le cose che materialmente incarnano il dominio. Penso alla frase che in Uomo Invisibile (1952) lo scrittore afroamericano Ralph Ellison mette in bocca a un uomo che nella rivolta del ghetto dà fuoco all’edificio in cui lui stesso abita: «Mio figlio è morto di tubercolosi in quella trappola per topi, ma da ora non poi non ci dovrà nascere più nessuno». Così sia.

* Fonte: Alessandro Portelli, il manifesto[1]

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