Il Tribunale speciale per il Libano sentenzia sull’omicidio del premier Hariri
Costi per un miliardo di dollari, 297 testimonianze, esaminati milioni di sms e telefonate. Sono solo alcuni dei numeri che raccontano il lavoro di anni del Tribunale speciale per il Libano (Tsl) nato sotto l’egida delle Nazioni Unite per fare luce sui responsabili e i mandanti dell’attentato in cui il 14 febbraio 2005, sul lungomare di Beirut, rimasero uccisi il premier sunnita Rafik Hariri e altre 21 persone. Due tonnellate di esplosivo che spinsero il Libano verso lo scontro politico interno che lo lacera ancora oggi. Nelle quattro settimane successive all’attentato nacquero due schieramenti contrapposti: l’8 Marzo, filo-siriano e guidato dal movimento sciita Hezbollah, e il 14 marzo filo-occidentale e capeggiato da Saad Hariri, il figlio del premier assassinato. L’esito del processo al Tsl indica che anche la morte di Rafik Hariri resterà un mistero, uno dei tanti che hanno segnato la storia del Libano campo di battaglia dei paesi confinanti, vittima di guerre innescate da israeliani, siriani e altri ancora, piegato da settarismo e confessionalismo.
Il procedimento penale internazionale in Olanda in concreto è stato frutto delle forti pressioni di Usa, Francia e altri paesi europei volte non ad accertare la verità che meritano tutti i libanesi e la famiglia di Hariri, ma a colpire politicamente i “nemici” – Hezbollah e Siria – accusandoli di aver eliminato il premier (e potente tycoon legato all’Arabia saudita) perché intendeva portare il Libano nell’orbita di Washington e manifestava l’intenzione di “liberare” il suo paese dal controllo di Damasco (previsto dagli accordi di Ta’if che nel 1989, benedetti anche degli Usa, avevano messo fine alla guerra civile, 1975-90). E a questo proposito Washington, Parigi e Riyadh ricordavano l’incontro carico di tensione dell’agosto 2004 tra Hariri e il leader siriano, Bashar Assad. Eppure proprio i presunti responsabili dell’assassinio soffrirono le ripercussioni immediate e più dure dall’accaduto. In particolare Assad che, messo sotto pressione, fu costretto a ritirare nei mesi successivi le truppe siriane in Libano, subendo un forte ridimensionamento.
Il Tsl, che aprì le sue porte nel 2009, si compone di giudici libanesi e internazionali – ha avuto come presidente anche Antonio Cassese -, nominati dal Segretario generale dell’Onu e ha preso in consegna la competenza della commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite (Uniiic). L’ombra dello scontro politico libanese (e degli interessi degli Usa) ha sempre gravato sulle indagini e sul processo. L’ inchiesta coinvolse subito agenti della sicurezza libanesi e siriani di alto livello. Quattro generali libanesi filo-siriani furono arrestati e detenuti per quattro anni senza alcuna accusa e prova – tra i quali il potente Jamil al Sayyed, ex direttore generale della Sicurezza Generale – e sono stati liberati su ordine del Tsl.
Nel settembre 2010 fecero scalpore le dichiarazioni di Saad Hariri al quotidiano Asharq al-Awsat. «Abbiamo commesso degli errori e accusato la Siria di aver assassinato il premier martirizzato. Era un’accusa politica e questa accusa politica è finita…Il Tsl guarderà solo alle prove». Quindi sono arrivati i “falsi testimoni”, Mohammad Siddiq e Husam Husam, presunti ex ufficiali dei servizi siriani che accusarono Damasco dell’eliminazione di Hariri e di un «coinvolgimento logistico» nell’omicidio di Hezbollah. Il Tsl li dichiarò non attendibili. Siddiq ha poi trovato rifugio in Europa facendo perdere le sue tracce. A loro volta, tempo prima, alcuni personaggi con forti legami con la Siria avevano tentato di indirizzare le indagini verso un palestinese di 22 anni, Ahmed Abu Addas: una pista completamente falsa.
Fu Der Spiegel nel maggio 2009 a rivelare che le indagini si stavano concentrando su telefoni cellulari presumibilmente utilizzati dai cospiratori per pianificare ed eseguire l’attentato. Persone, aggiunse, legate a Hezbollah che sembravano aver seguito i movimenti di Hariri prima e durante l’attentato. E’ ciò che ieri ha spiegato, in tutti i particolari, il procuratore David Re durante la lettura della sentenza. A capo di questo gruppo di cospiratori sarebbe stato Mustafa Badreddine, un esponente del movimento sciita, ucciso in Siria nel 2016. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, negando le accuse replicò l’anno dopo riferendo di indagini svolte dalla sua organizzazione su droni israeliani che avrebbero seguito Hariri prima del suo assassinio.
Qualcuno ha ipotizzato che non lo Stato siriano bensì cellule dei servizi segreti di Damasco abbiano eliminato il premier libanese aggirando lo stesso Assad all’epoca ritenuto, dall’ala dura del partito Baath e della sicurezza, un leader debole che non aveva usato il pugno di ferro per riportare all’ordine Rafik Hariri.
* Fonte: Michele Giorgio, il manifesto
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