by redazione | 5 Agosto 2020 8:27
Ci risiamo! E vedremo quanto durerà stavolta l’attenzione dei media, lo stupore degli ingenui, l’indignazione degli smemorati. Forse un po’ più del solito, poiché l’accorto magistrato è ricorso al sequestro dell’intera caserma dei carabinieri di Piacenza; il solo arresto dei suoi gestori non avrebbe prodotto la stessa visibilità.
Ma se è la prima volta che ciò succede, le inchieste per violenze sugli arrestati e illegalità in divisa non sono certo rare, pur costituendo nient’altro che la punta dell’iceberg di un fenomeno che solo a Genova 2001 è emerso nella sua profondità.
Ai riflettori su Piacenza e alla pubblica esecrazione hanno certo contribuito i risvolti a luci rosse ma, più di tutto, la compresenza di droghe e di spaccio. Argomento così rodato e assorbente ma mandare presto in secondo piano pestaggi e arresti ingiustificati. La violenza istituzionale esercitata su stranieri e marginali pare, e non da oggi, essere considerata meno grave di quella, assai più raramente, esercitata nei riguardi di cittadini inseriti.
Del resto, vi è chi, in passato, non ha esitato a teorizzare che i “colletti bianchi” finiti in carcere ne abbiano a soffrire molto di più, non essendo quella prospettiva nell’ordine del previsto e del “naturale”. Ci sarà pure un motivo se carcere e tortura sono storicamente – e impunemente – riservati a poveri, tossicodipendenti e ribelli.
Come ebbe a raccontare anni fa un commissario che, pur tardivamente, ruppe il muro dell’omertà, senza peraltro provocare alcuno scandalo o inchiesta: i compiti della squadra di torturatori della polizia, del quale ammetteva di aver fatto parte nella lotta al terrorismo, erano quelli di «applicare anche ai detenuti politici quello che fanno tutte le squadre mobili». Insomma, violenze e torture sui fermati erano la norma, ma in quel momento storico, secondo il funzionario semi-pentito, “dall’alto” arrivò l’autorizzazione a fare lo stesso nei confronti dei militanti armati.
In quegli stessi anni (primi ’80) e luoghi (Veneto) di cui il commissario ha raccontato in un’intervista (“L’Espresso” del 9 aprile 2012), era presente un altro personaggio che, in qualche modo, ci riporta a Piacenza: Gianpaolo Ganzer, ufficiale dei carabinieri del nucleo di Dalla Chiesa, a capo dell’Anticrimine di Padova, poi a sua volta generale e comandante del ROS. Nel 2010, ancora in servizio (andrà in pensione nel 2012), con altri 13 carabinieri venne condannato a 14 anni «per aver costituito un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso e ad altri reati, al fine di fare una carriera rapida» (condanna ridotta nel 2013 a 4 anni e 11 mesi, prescritta nel 2016).
In buona sostanza (e qui l’ambivalenza del termine è assai calzante), Ganzer avrebbe fatto in grande quel che i più ruspanti carabinieri piacentini facevano in piccolo. Sono passati pochi anni, ma quella vicenda pare archiviata nella memoria pubblica come tante altre simili, sia pur di minore eclatanza. Tutto dimenticato. O quasi. Tocca infatti ora convenire con un commento Twitter dell’avvocato Carlo Taormina: «In fin dei conti i carabinieri di Piacenza ripagavano i confidenti facendoli spacciare e malmenavano quelli che arrestavano. Routine! Ganzer fu assolto per ben di più». Anche l’avvocato è invecchiato, tanto da confondere prescrizione e assoluzione, ma il resto dell’affermazione è indiscutibile, a prescindere dal suo autore.
Ecco. Questa è la routine. Questo è «quello che fanno tutte le squadre mobili». Si eccepisce che il crimine non si può affrontare con i guanti bianchi. Più o meno lo stesso disse Vincenzo Muccioli ai tempi del processo per l’omicidio Maranzano, prima ucciso nella comunità di San Patrignano e poi scaricato tra l’immondizia a Napoli. La droga e il proibizionismo sono stati e continuano a essere la comoda coperta per mille nefandezze.
* Fonte: Sergio Segio, il manifesto[1]
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