Morire di CPR a Gradisca d’Isonzo

by redazione | 22 Luglio 2020 12:31

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Una nuova morte al CPR di Gradisca d’Isonzo, riaperto a fine dicembre 2019.
Già il 19 gennaio era morto Vakhtang Enukidze, secondo l’autopsia per edema polmonare, a termine di un autentico calvario di trasferimenti tra CPR, ospedale, carcere, CPR, ospedale. Gli esiti degli accertamenti istologici e tossicologici non si conoscono a tutt’oggi, perché il 30 giugno è stata concessa una proroga per i periti.
Il 14 luglio alle 8.30 è stato trovato morto nella propria cella un cittadino albanese di 28 anni, arrivato a Gradisca il giorno 10, proveniente da Bolzano, ove era stato fermato per litigi e trovato con permesso di soggiorno scaduto; era in cella d’isolamento per le misure anti-Covid con altri cinque compagni. Di questi uno, marocchino di 34 anni, è stato trovato anche lui in gravi condizioni e trasferito d’urgenza in ospedale, ove è stato ricoverato in terapia intensiva, dalla quale è stato dimesso con trasferimento alla medicina la sera del 18.
Anche in questa occasione si è assistita alla consueta sfilata di motivazioni: prima l’ipotesi di un omicidio-suicidio, poi di una overdose farmacologica e di sostanze. Solo la mobilitazione immediata da parte delle espressioni di opposizione ai CPR ha consentito di tenere aperta la necessità di indagine. La stessa sera del 14 c’è stato un riuscito presidio fuori dal CPR, che ha consentito di allacciare relazioni con i reclusi.
Il CPR di Gradisca da settimane ormai registrava frequenti episodi di autolesionismo, di scioperi della fame con anche accenni di rivolte e incendio di materassi e materiali vari. Sotto accusa da parte dei migranti lì incarcerati era in particolare la pessima qualità del cibo e la scarsa assistenza medica.
Tale situazione si è aggravata con l’esplodere della emergenza Covid; il protocollo tra Ente gestore (cooperativa Edeco) e la locale Azienda sanitaria prevedeva la presenza programmata di operatori della salute mentale e delle dipendenze, oltreché della prevenzione. La crisi Covid ha interrotto anche l’applicazione di tale protocollo con conseguenti residui colloqui via virtuale.
Il CPR si conferma quale struttura di contenimento anche sanitario, con il consueto corredo di uso diffuso e incontrollato di psicofarmaci; l’approccio clinico, assicurato per sole cinque ore al giorno da medici in presenza transitoria e spesso molto breve con l’ausilio di pochi infermieri a partita IVA, senza mediazioni culturali, è di tipo pre-tecnologico. La diagnosi è fatta con la sola visita senza accertamenti strumentali o di laboratorio, in quanto il compito del medico è di contenere al minimo gli invii ad accertamenti strumentali e/o a visite specialistiche in ospedale, per il rischio di fughe.
Inoltre, a differenza delle carceri, l’azienda sanitaria non ha competenza sulla salute all’interno del centro, per cui i soggetti incarcerati per motivi amministrativi rappresentano una eccezione rispetto al principio costituzionale che prevede l’obbligo dell’assistenza sanitaria pubblica a chiunque, senza distinzioni (proprio per rispettare tale mandato l’onere dell’assistenza sanitaria nelle carceri è stato trasferito ai servizi sanitari regionali).
Il CPR, quindi, anche dal punto di vista della salute rappresenta una anomalia, in grado esclusivamente di produrre malattia e morte. I cittadini migranti lì reclusi non hanno diritto di accesso libero alle cure, ma devono sottostare al controllo esercitato da una struttura sanitaria privata, precaria, intermittente, sostanzialmente rispondente a ragioni di polizia e non a ragioni di salute.
Non sono operativi protocolli che prevedano neppure screening all’ingresso; non esistono percorsi assistenziali mediati da una appropriata mediazione culturale, in grado di intercettare bisogni, paure, necessità di prospettive; si consideri che la maggior parte dei reclusi sono da anni presenti nel territorio italiano; hanno attraversato esperienze lavorative precarie, mal pagate, con esposizioni professionali mal governate. L’esperienza sanitaria di questi anni, confermata da numerosi lavori scientifici, sottolinea come la popolazione migrante dopo alcuni anni di permanenza in Italia assume il profilo epidemiologico della popolazione italiana. Pertanto, è diffusa tra i migranti la presenza di malattie croniche, così come anche di esiti di infortuni sul lavoro.
Tutto ciò richiama la necessità di assicurare a questi soggetti una adeguata assistenza sanitaria, perché come spesso loro stessi dicono «non sono solo braccia, ma esseri umani».

* medico e attivista

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