La globalizzazione di mafie e corruzione. Intervista a Sabrina Pignedoli

La globalizzazione di mafie e corruzione. Intervista a Sabrina Pignedoli

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È la corruzione il nuovo modus operandi delle mafie. Così si sono espanse in tutta Italia e in gran parte del mondo avanzato. Serve una volontà globale per sconfiggerle e un cambio di cultura, a partire delle scuole. Sabrina Pignedoli, giornalista prestata alla politica ed esperta di lotta alle mafie, racconta come proseguire la battaglia. E provare a vincerla definitivamente.

 

Rapporto Diritti Globali: Da giornalista prima, da consulente della Commissione antimafia e ora da parlamentare europeo quale percezione ha della profondità delle infiltrazioni mafiose nelle istituzioni? Negli ultimi tempi nota un aumento o una diminuzione del fenomeno?

Sabrina Pignedoli: Le mafie da diverso tempo hanno capito che sparare non conviene più: molto meglio corrompere. È questo il metodo principalmente utilizzato per infiltrarsi nelle istituzioni. Aumento? Diminuzione? Io direi il primo. Ma è difficile farne una valutazione quantitativa perché quando le mafie sparano, o minacciano, sono più evidenti, si percepiscono di più. Ed è anche più facile contrastarle. Quando corrompono rimangono invece nell’ombra: del resto, né al corruttore, né al corrotto conviene denunciare. Anche per questo è stato importante fare una legge più ferma contro la corruzione.

 

RDG: In Emilia-Romagna, la sua regione, si è tenuto il più grande processo per ’ndrangheta della storia d’Italia. Ancora oggi, però, moltissimi politici del Nord contestano che la mafia sia presente nel Settentrione. Per quali ragioni?

SP: Laddove non c’è malafede, non si riconosce la presenza del fenomeno per un fattore culturale: ci si aspetta il mafioso con coppola e lupara e non l’imprenditore di successo che ha ampia disponibilità di denaro, con uno stuolo di professionisti – spesso locali – che lo aiutano nelle sue attività economiche e finanziarie. Il mafioso, al Nord, non si presenta con la pistola, ma con i favori. Soprattutto nei piccoli Comuni arriva, presentandosi come imprenditore che vuole fare qualcosa per la comunità in cui vive, aiuta economicamente le attività del Comune, della Parrocchia o della locale proloco, sponsorizza la locale squadra di calcio, si offre di risistemare gratuitamente la rotonda all’ingresso del Paese. È successo. Poi cominciano le richieste: come può, a quel punto, un Comune negare un cambio di destinazione d’uso, un permesso a costruire, eccetera? Tanto più che questi personaggi sono capaci di spostare percentuali di voti che, soprattutto nei piccoli Comuni, possono fare la differenza.

Spesso, però, ho notato che c’è malafede: ovvero gli amministratori sanno esattamente chi hanno di fronte, ma preferiscono far finta di non vedere, sostenere che la mafia non esiste, scendere a patti con questi personaggi fino a quando fanno loro comodo – a livello elettorale, di finanziamento – per poi fingersi inconsapevoli quando arrivano le indagini della magistratura.

Del resto, la sentenza dell’operazione Amelia dice chiaramente che la strategia associativa era «giunta a condizionare le amministrazioni del territorio, alla ricerca di interlocutori e sponde in ogni partito».

 

RGD: Oltre che nel Nord, le mafie sono ramificate nel resto d’Europa e hanno rapporti con altre organizzazioni malavitose nel mondo. Come si può – a livello italiano ed europeo – contrapporre una strategia di contrasto a una mappa sempre più ramificata e forte?

SP: Alcune azioni sono già state introdotte: penso, per esempio, alle squadre investigative comuni che permettono alle polizie di diversi Stati europei di condurre indagini insieme, con uno scambio immediato di informazioni e prove. Un ostacolo è sicuramente rappresentato dalle diverse normative in materia: il reato di associazione mafiosa esiste solo in Italia e non è possibile all’estero procedere con il sequestro preventivo dei beni, strumento utilissimo per limitare l’espansione delle mafie colpendole nel loro cuore economico. Tuttavia, come diceva il giudice Giovanni Falcone già nel 1990, il primo fondamentale passo che deve essere fatto è l’abolizione dei cosiddetti paradisi fiscali: intollerabili soprattutto all’interno dei confini dell’Unione Europea.

 

RDG: Provenendo dal mondo del giornalismo, quale può essere il ruolo dei media e della formazione scolastica nel creare una cultura della legalità che porti anticorpi specie nelle giovani generazioni contro le mafie tutte?

SP: È un ruolo fondamentale e imprescindibile. Sono stata spesso a parlare nelle scuole e tra i ragazzi ho trovato molto interesse e reattività. Ma, a volte, sono permeati da una visione delle mafie da fiction tv, con il mafioso che viene considerato l’eroe. Invece, i boss non sono esseri forti e imbattibili. Anche leggendo le tante intercettazioni delle varie operazioni, emergono personaggi per nulla coraggiosi, pieni di sé. Ai ragazzi bisogna far vedere questo aspetto. Mentre i giornali possono far capire alle persone quanto le mafie influenzino la nostra quotidianità. Siamo infastiditi dal ladro che ci entra in casa, nel garage, lo capisco. Ma dobbiamo renderci conto che i mafiosi rubano quotidianamente a tutti noi con le frodi collegate alle false fatture, con le truffe sui fondi europei, con i costi degli appalti che lievitano, con le opere che non vengono realizzate in maniera corretta e crollano. Reati, che come si vede, non sono tipici della mafia. Ed è proprio su questa linea di confine e di relazioni che si instaurano tra malaffare e mafie che dovrebbe essere tenuta alta l’attenzione. Invece, spesso i titoli sono sugli aspetti più folkloristici del fenomeno.

 

RDG: A livello globale le statistiche mostrano come sia sempre più decisivo il peso della corruzione che si allarga su tutti i continenti. Quali misure potranno essere prese per contrastare una pratica che affligge ogni branca dell’economia e dello sviluppo sociale?

SP: Con la legge cosiddetta “Spazzacorrotti” sicuramente un passo avanti c’è stato, sia a livello investigativo, con la possibilità di utilizzare i trojan, l’agente sotto copertura e gli “incentivi” a denunciare, sia a livello di repressione, con un aumento delle pene e l’esclusione dai rapporti con la Pubblica Amministrazione per chi viene condannato.

Il problema resta nella mentalità: troppo spesso non viene colto il disvalore dei comportamenti corruttivi, che anzi sono ritenuti inevitabili e accettati socialmente. Il corrotto dovrebbe essere inviso alla società, isolato, perché danneggia tutti quanti noi. Per arrivare a questo occorre agire sulla conoscenza e sulla cultura, a partire dai ragazzi dalle scuole. E poi, indubbiamente, è necessaria la certezza della pena, perché troppo spesso i reati corruttivi sfuggono alle maglie della giustizia.

 

RDG: A livello di Nazioni Unite esistono tante agenzie specifiche in campi diversissimi – UNESCO, FAO, eccetera – ma manca un organismo che abbia come obiettivo la lotta alle mafie a livello globale. Pensa che potrebbe essere una strada praticabile e utile?

SP: Prima di tutto ci vorrebbe la volontà a livello globale di sconfiggere le mafie e per farlo bisogna partire dal riconoscimento del problema. Oggi mafie come la ’ndrangheta sono presenti in tutti e cinque i continenti, ma ci sono, per esempio, amministratori delle regioni del Nord Italia che, nonostante le evidenze, continuano a dire che nel loro territorio la mafia non c’è. Sto ultimando un libro sulle mafie in Germania e lì viene vista dall’opinione pubblica come una questione folkloristica, una cosa tra italiani, senza contare che il traffico di droga e armi avviene sul territorio tedesco, il riciclaggio del denaro sporco pure e a venire alterata per questo è anche la loro economia. Diventa poi difficile far capire a Stati dell’Est Europa, per esempio, che dovrebbero rinunciare ad alcuni ingenti investimenti che arrivano in contanti perché sono soldi delle mafie. E questo solo per restare a livello europeo. Provate a immaginare quali problematiche sorgerebbero a livello mondiale. Eppure, sarebbe molto importante fare fronte comune contro le mafie, italiane e non, perché si sono globalizzate e il contrasto messo in campo da un singolo Stato rischia di rivelarsi uno sforzo inutile, una lotta contro i mulini a vento.

 

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Sabrina Pignedoli: nata a Castelnuovo ne’ Monti (Reggio Emilia) nel 1983, si è laureata all’Università di Bologna in Cinema, televisione e produzione multimediale. Successivamente, nel 2015, ottiene una seconda laurea specialistica in Diritto ed economia internazionale. Al Master in Giornalismo dell’Università di Bologna presenta una tesi sul ruolo della stampa nei depistaggi della strage del 2 agosto 1980. Svolge il praticantato presso le redazioni del TgR dell’Emilia-Romagna e del “Quotidiano Nazionale-Resto del Carlino”. È giornalista professionista dal gennaio 2010.

Il suo primo libro, Operazione Aemilia: Come una cosca di ’Ndrangheta si è insediata al Nord (Imprimatur editore, 2015), ha ricevuto l’Aquila d’oro del Premio Estense 2016.

Dal marzo 2019 è consulente a tempo parziale della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere.

Alle elezioni europee del maggio 2019 è stata eletta nel M5S da capolista nella Circoscrizione Nord-Est. Al Parlamento Europeo è membro della Commissione per il controllo dei bilanci, della Commissione giuridica e della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni.

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* Intervista pubblicata nel 17° Rapporto Diritti Globali – “Cambiare il sistema”, a cura di Associazione Società INformazione, Ediesse editore

Il volume, in formato cartaceo può essere acquistato anche online: qui
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ph by New Brankaworld / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)



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