Censura in Turchia: restrizioni ai social, chi non si adegua scompare
Il via libera al disegno di legge anti-social turca era stato dato poche ore prima della preghiera musulmana a Santa Sofia dello scorso venerdì: mentre Erdogan si preparava a recitare il Corano, la commissione giustizia del parlamento dava luce verde al controllo statale dei social network. Ieri il voto favorevole dei parlamentari: dal prossimo ottobre Ankara potrà mettere al bando Twitter, Facebook, YouTube e Instagram (e tutti i social con più di un milione di visitatori unici al giorno) se non rispetteranno le nuove misure.
Ovvero, il trasferimento delle loro rappresentanze legali in Turchia e la rimozione immediata di ogni post considerato offensivo o immorale dallo Stato turco. Se non si adegueranno, trasferendo le loro sedi e cancellando dall’etere i post incriminati, pagheranno con multe fino a 4,3 milioni di dollari, limiti alla pubblicità e la messa al bando. L’iniziativa è partita su spinta dello stesso presidente Erdogan, infuriato per insulti alla figlia e al nipote apparsi su Twitter. Tanto infuriato da presentarsi in tv a minacciare il blocco dei social network.
Una censura a monte, dunque, che di certo non aiuterà a squarciare il velo di silenzio che da anni lega le mani (e le bocche) di oppositori e dissidenti. Non è un caso che migliaia di persone siano state condannate al carcere sulla base di un tweet o un post su Fb, commenti giudicati da una magistratura sempre più prona al governo Akp (in particolare dopo le epurazioni post tentato golpe del 2016) offese alle istituzioni e al presidente della repubblica. I dati parlano da soli: nel 2018 sono state condotte 26.115 indagini per «insulti al presidente», che altro non erano che critiche politiche.
«Una nuova era buia», l’hanno definita ieri attivisti e accademici, che amplierà a dismisura il già consistente potere dell’Akp di limitare la libertà di espressione e azzerare le critiche pubbliche al governo.
Un meccanismo già ben oliato. Secondo il gruppo di attivisti Engelli Web, sono già migliaia gli ordini di rimozione emessi dalle corti turche: oltre 400mila siti web, 7mila account Twitter e 40mila tweet, 10mila video di YouTube e 6.200 post di Fb.
* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto
photo by ANF News
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