L’incendiario. Gli Usa e il suo presidente da fiction al settimo giorno di proteste
LOS ANGELES. Nel settimo giorno della protesta, il presidente latitante degli Stati uniti in fiamme ha coreografato una bizzarra ricomparsa, dando vita alla più singolare diretta televisiva dai tempi dell’11 settembre.
Dopo aver rifiutato per giorni di parlare alla nazione, lunedì pomeriggio Trump indice d’improvviso via Twitter – il canale preferenziale che di recente ha preso a segnalare i suoi messaggi come inattendibili – «un annuncio» imminente. «Fra dieci minuti parlo nel Rose Garden», scrive, convocando in tutta fretta il press pool nel giardino all’esterno dello studio ovale spesso usato per le conferenze stampa all’aperto.
Da tre giorni il presidentissimo è rinchiuso nel palazzo cinto di manifestanti, in almeno un paio di occasioni è stato condotto nel bunker di sicurezza dal secret service coi nervi a fior di pelle.
DURANTE GLI SCONTRI di lunedì è stata perfino incendiata la garitta della residenza dell’uomo più potente del mondo. Sui canali news che Trump notoriamente divora, rimbalzano valutazioni non proprio lusinghiere: il lockdown smonta l’immagine spavalda che Trump si cura di proiettare nei suoi comizi.
L’annuncio è fissato per le sei e mezza, mancano pochi minuti ma nel giardino fiorito dove è stato sistemato il podio ed i giornalisti distanziati, echeggiano gli slogan scanditi dalla folla che per il terzo giorno consecutivo ha cinto d’assedio la Casa bianca, assembrata rumorosamente ma pacificamente dietro le transenne di Lafayette park. D’improvviso come per un ordine perentorio ricevuto, le falangi di una mezza dozzina di agenzie di polizia federale muovono violentemente sulla folla, spintonano con gli scudi e manganelli sfoderati.
PARTONO LE SALVE di lacrimogeni e proiettili seguiti dalla linea dei park police a cavallo. Sotto i colpi degli agenti finiscono ragazzi, bianchi, neri e giornalisti (questi ultimi bersaglio sempre più frequente ed intenzionale della polizia in molte città).
È il caos, una sommossa di polizia, ma entro dieci minuti la spianata immersa nei lacrimogeni è svuotata, nel Rose Garden il volume è accettabile, a parte i periodici botti delle granate stordenti in lontananza. Sistemati i dintorni, Trump sale su podio. «Sono il presidente dell’ordine e della legge» dice, adesso ci penso io.
«Le proteste adesso finiranno. Ho mobilitato migliaia di soldati e invocato l’Insurrection act del 1807, adesso vediamo chi vince». Ribadisce l’accusa lanciata il giorno prima ai governatori inefficaci e alle autorità (democratiche) delle grandi città.
«SE GLI STATI E LE CITTÀ si rifiutano di prendere le misure necessarie per difendere la vita e la proprietà dei loro cittadini, allora invierò l’esercito a risolvere velocemente il problema». Sembra una dichiarazione di guerra. Ai giornalisti sbigottiti infine annuncia: «ora vado a porgere i rispetti ad un luogo molto speciale» Inizia così una passeggiata dimostrativa dalla Casa bianca all’adiacente chiesetta di St.John, una sorta di cappella presidenziale da sempre frequentata dai leader americani.
STAVOLTA IL PRESIDENTE vi si reca a piedi, attento a non inciampare sui detriti della battaglia campale appena terminata e circondato da un coro di sicurezza di agenti della protezione, militari, forze speciali e cecchini che hanno l’effetto di farlo sembrare ancora più solo e vulnerabile, la versione reality-TV di un tiranno.
Una passeggiata «corazzata» mentre pochi isolati più là la polizia bastona ancora la gente. Arrivato a destinazione Trump prende in mano una bibbia e la mostra tronfio alle telecamere come fosse un arma impropria, prima di rincasare con tutto il corteo. Dissolvenza a nero sugli Usa e il suo presidente da fiction. La prima reazione è quella della reverendo Mariann Budd, vescovo episcopaliano che si dice «indignata» di non aver ricevuto nemmeno un preavviso della visita alla chiesa di cui è «titolare» nonché della sostanza del messaggio inviato dal presidente. «Tutto ciò che ha fatto è stato per infiammare la violenza. Invece di essere guida morale del paese continua a dividerci».
La sceneggiata, con previa dispersione di una manifestazione pacifica viene criticata come rappresentazione plastica dell’abuso di potere. «Trump ha attaccato un assembramento pacifico per fare una photo-op» è il giudizio terso di Kamala Harris.
IL SIPARIETTO TRAGICOMICO non cambia sostanzialmente l’America vera, quella in cui il sopruso razziale si è saldato con la pandemia ed il disastro economico nel crepuscolo liberista.
«Come se la Spagnola del 1918, il crack del 1929 e le rivolte del 1968 stessero accadendo tutti assieme», ha efficacemente sintetizzato il senatore Coons del Delaware. E come se su questo drammatico scenario presiedesse il leader più squilibrato dell’esperimento americano. Nel vuoto si è inserito ieri Joe Biden, recatosi a Philadelphia per fare quello che da giorni molti reclamavano: offrire una alternativa chiara allo sfacelo trumpista.
«Il paese è disperato per vera leadership», ha esordito l’ex vicepresidente-candidato. «Trump (lo) ha trasformato in un campo di battaglia dilaniato da vecchi rancori e nuove paure. È davvero questo che vogliamo tramettere ai nostri figli e ai nostri nipoti? Siamo una nazione addolorata. Non dobbiamo lasciare che il dolore ci distrugga. Siamo un paese infuriato ma non possiamo lasciare che la rabbia ci consumi». Per una volta la retorica infervorata è parsa commisurata alla gravità della scelta elettorale che si profila sempre più cruciale.
* Fonte: Luca Celada, il manifesto
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