Forum Droghe ha un quarto di secolo, e lo dimostra tutto
La memoria, specie di questi tempi in cui la verità pare divenuta un’opinione tra le tante, è strumento fondamentale. Si può anzi considerare tra le armi principali a disposizione per chi non si rassegni alla dittatura del presente, all’immodificabilità delle cose e a quel brusio di sottofondo che ha sostituito la comunicazione sociale e lo sguardo critico sulla realtà.
La storia di Forum Droghe e di “Fuoriluogo” sono strettamente avvinte e interdipendenti, oltre che coeve. Cercandone traccia nelle agenzie dell’epoca, la prima menzione riguarda quest’ultimo e in particolare il suo debutto, annunciato il 12 ottobre 1995. «Un giornale per parlare di droga ma non solo, prostituzione, carceri e Aids, immigrati e giovani “disobbedienti”, riduzione del danno e della illegalità», recitava la presentazione. Propositi ambiziosi, a tratti rispettati, ad allargare giustamente il discorso dal solo aspetto evidenziato dal nome scelto per l’associazione. Delimitante eppur centrale, poiché, allora come oggi, rimane indiscutibile – poiché dimostrato dai dati e dai fatti – quanto affermava il documento che annunciava l’assemblea fondativa di Forum Droghe il 13 maggio 1995: «La questione droga diventa cruciale per interpretare l’ipertrofia del sistema penale».
Si era infatti nell’onda (che continua, persino con peggioramenti, a tutt’oggi) della legge sulle droghe varata definitivamente nel 1990, cosiddetta Iervolino-Vassalli, sorta e voluta nel solco e a imitazione della statunitense war on drugs di reaganiana memoria e temporalmente di poco precedente, alla cui linea si adeguarono presto i grandi media italiani, con una campagna ossessiva a sostegno: Guerra mondiale alla droga, titolava in quei mesi il “Corriere della Sera”; Droga, nuovo Vietnam era l’allarme del quotidiano dei vescovi “Avvenire”, per indirizzare a sua volta le comunità terapeutiche, spesso gestite da sacerdoti o gruppi di ispirazione cattolica, che, per fortuna, in molti casi non si allinearono, divenendo invece l’anima di una coalizione dal programmatico nome di “Educare, non punire”.
Fare terra bruciata
La filosofia della nuova legge-manifesto era esattamente opposta: prima e in ogni caso punire. Si fondava sulla dichiarata necessità – anzi sul valore – della punizione al fine “pedagogico” di “fare raggiungere il fondo” ai tossicodipendenti, per costringerli poi a risalire. Incurante del fatto che, invece e nel frattempo, molti morivano, costretti sui marciapiedi e nelle celle o infettati dall’AIDS e tutti erano costretti a nascondersi, sfuggendo quindi alle possibilità di aggancio terapeutico e alla prevenzione. Persino i medici venivano costretti alla denuncia, alla faccia del rapporto fiduciario con il paziente. «L’unico modo per costringere il tossico a smettere è fare terra bruciata intorno a lui. Ai drogati deve essere proibito qualunque tipo di attività lavorativa», ammonivano e incitavano i capi delle comunità embedded.
Gli effetti si videro subito e furono drammatici. Nel luglio 1991, nel giro di pochi giorni, tre persone arrestate per droga si suicidarono in carcere. Tra di esse Stefano Ghirelli: 18 anni appena compiuti, incensurato, condotto nel carcere di Ivrea poiché trovato con 25 grammi di hashish, si impiccò dopo il rifiuto del giudice di concedergli la libertà provvisoria per “pericolosità sociale”. Nelle prigioni cominciò presto una tendenza ipertrofica che da allora non si è più arrestata. Il 31 dicembre 1990 i tossicodipendenti ufficialmente presenti in carcere erano 7.299, sei mesi dopo erano già saliti a 9.623 per arrivare a ben 14.818 il 31 dicembre 1992. In crescita anche le morti: nel 1990, per la prima volta, il numero dei decessi per overdose superò le mille unità, arrivando a 1.161; l’anno seguente giunse a 1.383 e, nel 1992, a 1.217. Ancora più appariscenti le cifre degli ingressi totali annuali in carcere: dopo la Iervolino-Vassalli vedono un’impennata, passando dai 56.076 del 1990 ai 75.786 del 1991, ai 93.328 del 1992, ai 98.119 del 1993, per poi scendere leggermente, anche grazie alla vittoria del referendum abrogativo nel 1993 di alcune parti di quella micidiale legge, agli 88.415 del 1995. In quell’anno, dopo un decremento nel 1993 e 1994, i decessi per droghe sono risaliti ai 1.195, per arrivare l’anno seguente al picco storico dei 1.566.
La progressiva deriva securitaria della sinistra
Insomma, quello era il quadro precedente e motivante la nascita di Forum Droghe/Fuoriluogo. Così come l’associazione nasceva con lo scopo di essere luogo ospitale e aggregatore rispetto a realtà politico-organizzative già esistenti, così la testata intendeva programmaticamente indagare e approfondire i nessi, purtroppo non a tutti evidenti, tra differenti aspetti e problematiche del sociale (e del penale). Lavorando su binari paralleli, e spesso divaricantisi, nel tentativo di renderli invece maggiormente comunicativi, dialoganti e sinergici: quello dei movimenti e quello dei partiti della sinistra, allora ancora presente, anche in modo numericamente significativo, entro il parlamento, le istituzioni e per qualche periodo persino al governo. Meglio precisare: senza alcuno sconto o compiacenze non meritate. Basti qui citare un testo tra i mille possibili. Riguarda un tema in apparenza eccentrico rispetto alla dichiarata ragione sociale di Forum Droghe, forse rimasto troppo trascurato nella ormai lunga storia dell’associazione, quello dell’immigrazione. Scriveva “Maramaldo” nella sua rubrica Facce di bronzo: «“È davvero singolare che il vice presidente Fini si congratuli con Cofferati per la sua fermezza sulla legalità, dimenticando che le norme severe sul contrasto dell’immigrazione clandestina le ha introdotte il centrosinistra”. Così Livia Turco rivendica il primato della tolleranza zero verso l’immigrazione. A differenza di Cofferati, rigorista tutto l’anno, a giorni alterni Turco professa invece la vocazione solidale: questo era un giorno dispari. Speriamo che il programma di governo del centrocentrocentrosinistra (non è un refuso, ma una constatazione) si faccia in un giorno pari».
Pur non essendo ancora i tempi dei Minniti, è ben vero che la questione dei migranti – di nuovo: allora come adesso – risultava tra le più spinose e laceranti anche all’interno del centrosinistra. Più suscettibile di consensi, anche trasversali, era senz’altro la proposta di legalizzazione della cannabis. Oggi può sembrare incredibile, ma una proposta legislativa in tal senso, con primo firmatario Franco Corleone, nel 1996 arrivò a essere sottoscritta da ben 118 deputati, di maggioranza e di opposizione, dai Michele Salvati e Fabio Mussi ai Vittorio Sgarbi e Roberto Maroni. Si era a cavallo del governo Dini, con alla guida del ministero della Famiglia e Solidarietà sociale un galantuomo, ex partigiano, come Adriano Ossicini, cui subentrarono rispettivamente Romano Prodi e, appunto, Livia Turco, mentre Corleone entrava come sottosegretario alla Giustizia.
Seguì, a ottobre 1998, il primo governo D’Alema, con Sergio Mattarella alla vicepresidenza e Oliviero Diliberto alla Giustizia, mentre la Rosa Russo Iervolino della legge sulla droga assumeva il dicastero dell’Interno, prima donna arrivata a guidare il Viminale; la Turco veniva confermata alla Solidarietà sociale, così come Corleone sottosegretario a via Arenula.
Per la prima volta arrivò al governo anche Domenico Minniti detto Marco, con la delega all’Informazione ed editoria. A posteriori, un piccolo indizio che qualcosa stava forse cambiando e che la sinistra securitaria aveva silenziosamente conquistato parecchie posizioni in poco tempo. Nelle aule parlamentari ma anche nel sociale, nelle stesse associazioni, in un progressivo slittamento di baricentro, di priorità, di riferimenti politici e culturali.
E proprio questo è il tema di una lettera che il Forum scrisse al nuovo premier D’Alema all’indomani del suo insediamento, chiedendo in generale nuove politiche sulle droghe e anche sperimentazione dei trattamenti terapeutici con eroina sul modello di quanto avveniva in altri paesi europei, a cominciare dalla Svizzera con la sua strategia dei quattro pilastri. Le città, anche quelle italiane, potevano e dovevano cioè diventare territori di innovazione e integrazione, anziché ripiegarsi in scelte securitarie e di “tolleranza zero”, come in molti casi stava avvenendo.
Non c’è qui modo di ripercorrere tappa per tappa, ma la storia ci racconta che, non solo in Italia, lo Stato penale ha travolto e svuotato quello sociale su tutti i piani e terreni sino ad arrivare al populismo e all’ipertrofia carceraria dei tempi nostri, alla legalità divenuta totem e feticcio, a un’antimafia divenuta in certe sue parti cavallo di troia del sostanzialismo giuridico e della pena ritorsiva.
Fuoriluogo, come sempre
Ce le hanno dunque suonate, ma noi non ci siamo mai stancati almeno di dirgliele, con coerenza, costanza e determinazione lungo un faticoso ma anche a tratti entusiasmante quarto di secolo. Basti ricordare che, proprio in quegli anni, nell’aprile 1998, si arrivò al voto positivo per abrogare l’ergastolo al Senato, salvo poi bloccare la legge alla Camera. L’allora Guardasigilli Giovanni Maria Flick si dissociò da quel voto, salvo poi giungere oggi ad ammettere con sincerità di avere sbagliato nell’opinione di allora e pervenendo anzi, in generale, ad auspicare il superamento del carcere in quanto tale.
Per un soffio mancammo l’abrogazione della pena perpetua. C’è da non crederci, nel momento in cui, nei giorni più acuti della pandemia del coronavirus e del rischio di trasformare le carceri in un esplosivo lazzaretto, una nuova classe politica e improbabili ministri di Giustizia sono arrivati a bloccare con decreto-legge la scarcerazione di qualche condannato per criminalità organizzata, pur se anziano, malato e a fine pena. Naturalmente, in ciò acclamati all’unisono da quasi tutti i media. E anche questo è cupo segno dei tempi, appena rischiarati da un altro fatto che ha dell’incredibile, vale a dire la permanenza e resistenza di quella fragile testata che è “Fuoriluogo”, piccola mosca bianca assediata dai cantori e fautori del populismo penale.
Lasciatemi concludere con un pertinente esercizio di memoria, pur se autoriferito. Alzi la mano chi se lo ricorda: “Fuoriluogo” cominciò le pubblicazioni, con il mio coordinamento, in forma cartacea e di supplemento a “Narcomafie”, la prima rivista antimafia (categoria allora meno equivoca dell’attuale) di cui, da poco ammesso a uscire durante il giorno dal carcere, mi occupavo per il Gruppo Abele. Con forte scandalo in prima pagina del Travaglio, che cominciava la sua fortunata carriera ne “Il Giornale”, e con concrete reprimende da parte del presidente del tribunale di sorveglianza, che intentò la revoca del lavoro all’esterno del penitenziario e infine sentenziò non dovessi più scrivere, convenendo con l’esposto pervenutogli dall’associazione vittime del terrorismo: «Anziché restare in silenzio e godere della benevolenza loro concessa attraverso le garantiste leggi penitenziali, “sputano” nel piatto dove mangiano e finiscono per riaprire le “ferite” dei parenti delle vittime. È pure biasimevole che il Sergio Segio (privato dei diritti politici) sia stato nominato coordinatore del giornale Marcomafie [sic!] edito dal Gruppo Abele su proposta di don Ciotti. Su tale giornale scrivono sia Sergio Segio che Susanna Ronconi. Il contenuto è prevalentemente di scelta politica e dubito che possa diffondere scelte errate e forse nocive».
Tiravamo ventimila copie. Ben più del quotidiano che, qualche anno dopo, subentrò nel “cangurarci”. Evidentemente ciò poteva preoccupare, e lo faceva.
Molto tempo è passato e molte cose sono cambiate. Quasi sempre non per il meglio.
Abbiamo perso qualche compagno di viaggio e altri ne abbiamo trovati in questo cammino, che resta ancora lungo e impervio.
* L’articolo di Sergio Segio è stato pubblicato su Fuoriluogo
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