by redazione | 16 Giugno 2020 16:30
Era il settembre 2017 quando Sarah Hijazi, all’epoca 27enne, salì sulle spalle di un amico e sventolò la bandiera arcobaleno. Era al Cairo, al concerto dei Mashrou’ Leila, band libanese conosciuta in tutto il mondo, ma vittima di censure in Medio Oriente (a partire dal Libano[1] stesso) perché accusata di difendere i diritti Lgbqti+.
Sarah era un’attivista Lgbtqi+. Si è uccisa domenica in Canada, dove aveva trovato asilo dopo mesi di prigione in Egitto, torturata e violentata. Ha lasciato un biglietto dove chiede perdono, la depressione che viveva dopo l’esperienza del carcere l’ha sopraffatta: «Ho cercato di trovare redenzione e ho fallito. Quell’esperienza è stata troppo dura, e io sono troppo debole per resistere».
In prigione era finita per quel concerto[2] e quella bandiera, una delle almeno 57 persone arrestate per aver partecipato all’evento dei Mashrou’ Leila, da allora banditi dall’Egitto. Unica donna a essere detenuta in una campagna di arresti durata tre settimane con raid nelle case, arresti e uso di app di incontri per individuare i sospetti.
All’epoca fu lo stesso procuratore generale Nabil Sadek (colui che, tra l’altro, si occupa della morte di Giulio Regeni, per cui l’Egitto parlò di incidente d’auto, droga e – appunto – relazione gay) a ordinare di investigare il caso della bandiera come minaccia alla sicurezza nazionale. Sarah era stata condannata, insieme ad altri, per «promozione della devianza sessuale e dissolutezza».
Era stata rilasciata su cauzione tre mesi dopo. Aveva già tentato il suicidio dopo quanto subito dalle guardie e da altri prigionieri: stupri, torture, umiliazioni. All’epoca la sua legale, Hoda Nasrallah, aveva raccontato: «È il solito gioco politico, soprattutto perché è una ragazza. Incitano altri detenuti, dicono “questa qui vuole che uomini e donne siano gay”, e loro la vessano. Ho visto graffi sulle sue spalle, mi è apparsa esausta. È stata picchiata».
Se l’omosessualità in Egitto non è reato, abusi e discriminazioni sono diffusi sul piano istituzionale e sociale. In carcere si va con altre accuse, immoralità, blasfemia e violazione delle leggi che vietano «pensieri e atti devianti contrari alla pubblica morale». Quando Patrick Zaki fu arrestato, una campagna mediatica apposita lo accusò di omosessualità come fosse un crimine, con commentatori tv e politici che infiammarono l’opinione pubblica accusando la comunità Lgbqti+ di ricevere fondi da non meglio precisati paesi esteri.
I numeri della repressione sono cresciuti sotto al-Sisi: dall’ottobre 2013 al marzo 2017, secondo l’ong egiziana Eipr, sono state detenute almeno 323 persone, 90 nel 2019.
* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto[3]
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