Black Lives Matter. Le proteste squarciano il velo sulla repressione delle polizie
“La polizia ha sempre ragione”. Più o meno esplicitamente, con sporadiche eccezioni, questo è stato da sempre il motto di pressoché tutte le sovranità statali.
Né c’è da stupirsene visto che le forze dell’ordine, dello stato e del suo monopolio della violenza, incarnano la rappresentazione più diretta. Così abusi e pratiche di sopraffazione arbitraria sono stati sistematicamente minimizzati, spesso insabbiati sul piano giudiziario, sempre sospinti ai margini del discorso pubblico quando non cancellati da un ostinato silenzio. Mentre le politiche governative, soffiando sulla brace di paure e insicurezze diffuse, ampliavano costantemente (non di rado sulla base di emergenze inesistenti) il raggio di azione, di arbitrio e di impunità delle forze di polizia. Oggetto peraltro di una insistente retorica di glorificazione.
Dopo l’assassinio di George Floyd, i tumulti e le proteste di massa che ne sono seguiti negli Stati uniti e in numerosi altri paesi con sorprendente intensità, la politica e le istituzioni non hanno più potuto, almeno in parte, trincerarsi dietro la negazione del problema, soprattutto laddove aveva preso storicamente forma in una guerra razziale permanente con tutto il suo corredo ideologico, psicologico e discriminatorio. Se l’epicentro si situa nella violenza subita, ad ogni grado e livello, dalla comunità afroamericana, la guerra razziale non ha certo risparmiato le ex potenze coloniali europee come Francia e Regno Unito o, più latente e impronunciabile, paesi con forte immigrazione come la Germania.
Nel corso di pochi giorni si sono susseguiti, accompagnati da manifestazioni antirazziste sempre più radicali e partecipate, “pentimenti” e promesse di revisione dei sistemi di polizia e dell’indiscutibilità delle loro forme di azione. Riassumiamo brevemente. Negli Usa si va dallo scioglimento del dipartimento di polizia di Minneapolis (luogo dell’uccisione di Floyd) al definanziamento delle forze di polizia in diversi stati dell’Unione. Una inversione di tendenza, insomma, rispetto alla superfetazione degli apparati repressivi cui abbiamo assistito da molti anni a questa parte.
In Francia, il ministro degli interni Castaner si spinge, bontà sua, a proibire lo strangolamento dei fermati e a suggerire la sospensione di agenti fondatamente sospettati di inclinazioni razziste. I sindacati di polizia insorgono: i loro iscritti non sono più “cittadini al di sopra di ogni sospetto” (come raccontava la celebre “indagine” di Elio Petri.) In Germania diversi Istituti di ricerca denunciano la diffusione del razzismo e dell’estremismo di destra nelle forze di polizia e a Berlino il parlamento locale vara, tra le grida indignate di Cdu e liberali, una legge che prevede il risarcimento per chi patisca, ad opera di qualunque funzionario pubblico, episodi di discriminazione. Non solo, evidentemente, per ragioni “razziali”.
Tutte queste “correzioni di rotta”, la cui entità ed effettività resta da vedere, non sono dettate semplicemente da un risveglio etico. I più imponenti tumulti che hanno interessato gli Stati uniti e l’Europa occidentale negli ultimi trent’anni sono stati originati dalla violenza mortale delle polizie e dalla sua assoluzione politica e giudiziaria. Con costi sociali ed economici giganteschi. Basti pensare alla rivolta di Los Angeles nel 1992 per arrivare a Minneapolis, passando per Ferguson e Baltimora. Stesso detonatore a Clichy-sous-Bois nel 2005 in Francia, dove la rivolta dilagò per giorni in numerose città.
E così ancora nel febbraio del 2017 in seguito alle violenze inflitte da quattro poliziotti a un giovane fermato. Analoga scintilla incendia Brixton nel 1995 e Londra nel 2011. Questa impressionante sequenza non incide in alcun modo sul comportamento delle forze di polizia che in vaste aree metropolitane e nei confronti delle comunità più discriminate continuano ad agire come forza d’occupazione in territorio nemico. I governi reagiscono alle insorgenze con una miscela a composizione variabile di promesse paternalistiche e minacce di repressione.
In Francia le violenze poliziesche più ingiustificabili assumono il significativo nome di bavures, sbavature, insignificanti smagliature nella gestione dell’ordine pubblico. Nonostante i costi spropositati di queste “sbavature” i governi subiscono la pressione delle corporazioni di polizia e temono di indebolire il proprio potere di intimidazione e di controllo.
Negli Usa, malgrado i tumulti e la poderosa ondata di proteste, la mattanza degli afroamericani non si arresta: a Minneapolis segue Atlanta. Tuttavia la politica non può più chiudere gli occhi di fronte al fatto che queste mobilitazioni si situano sulla soglia di una crisi economica senza precedenti, destinata a colpire duramente i settori più emarginati della popolazione. Laddove le diseguaglianze e i conflitti per la redistribuzione delle risorse non tarderanno a inasprirsi. In questo contesto la discriminazione razziale e l’abbandono al suo destino di un’area di emarginazione in sicura crescita confluiscono in una miscela altamente esplosiva.
Di fronte all’eventualità di un’insorgenza conflittuale imponente la tentazione di ricorrere a un altrettanto imponente dispiego di forza repressiva emerge da più parti. Per questo la questione delle forze dell’ordine, dell’estensione del potere di cui dispongono e delle forme in cui lo esercitano, è così decisiva. Anche nell’Italia della Diaz e di Bolzaneto.
* Fonte: Marco Bascetta, il manifesto
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