Professione antimafia. Il ministro Bonafede annuncia decreto-legge
Ma il presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, Bortolato, spiega: «Non si può azzerare una sentenza con una legge». Ricordate Eluana Englaro?
Come una favola all’incontrario con un finale che nessuno aveva previsto, nella Camelot a Cinque Stelle i due protagonisti si contendono la spada magica che qui non si chiama «Excalibur» ma «antimafia». E se le danno di santa ragione.
Il consigliere togato del Csm Antonino Di Matteo passa dalla televisione all’on line di Repubblica per ribadire quello che ha già detto e anzi rincara la dose: accusa l’altro di essersi tradito, a suo tempo, parlando di non meglio definiti «dissensi» e «mancati gradimenti» sulla scelta del capo Dap.
Sull’altro fronte, il ministro Alfonso Bonafede, rispondendo alla Camera ad un’interrogazione di Forza Italia, definisce l’addebito «surreale», «un’illazione campata in aria», e si difende ricordando che di «antimafia» è sempre stato di manica larga. «Basta – dice – semplicemente scorrere ogni parola di ogni legge che ho portato all’approvazione in questi due anni, dalla legge “spazzacorrotti” fino all’ultimo decreto legge che impone il coinvolgimento della direzione nazionale e delle direzioni distrettuali antimafia sulle richieste di scarcerazione».
Anzi, fa di più. Sul campo di battaglia dell’emergenza Covid nelle carceri sovraffollate, con i detenuti inviati ai domiciliari in base ai benefici previsti dalla legge 199/2010 (governo Berlusconi), il Guardasigilli annuncia: «Abbiamo messo in cantiere un decreto legge che permetterà ai giudici, alla luce del nuovo quadro sanitario, di rivalutare l’attuale persistenza dei presupposti per la scarcerazione dei detenuti in alta sicurezza e a regime di 41 bis». Insomma, la saga Di Matteo-Bonafede si arricchisce di una nuova puntata, ma non è il sequel della «trattativa Stato-mafia».
QUANDO IL 20 GIUGNO 2018, due giorni dopo aver ricevuto la proposta, l’allora membro della Direzione nazionale antimafia viene a sapere da Bonafede che a capo del Dap sarebbe andato Francesco Basentini e non lui, Di Matteo torna al ministero e scopre – così riferisce ora, due anni dopo – che il ministro è «informato» sulle intercettazioni in carcere di alcuni boss mafiosi che si agitano per la sua possibile nomina. (In effetti, quel rapporto dei Gom parrebbe essere arrivato al ministero intorno al 9 giugn, ben prima del loro incontro). Ma all’attuale consigliere del Csm la cosa non piacque al punto che, confida alla giornalista che lo ha intervistato ieri, «come nel nostro ultimo scambio di battute, io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali “non c’è nessun dissenso o mancato gradimento che tenga”. Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente, mi ha fatto pensare». Poi aggiunge: «Pensai allora e ho sempre pensato di essere stato trattato in modo non consono per la mia dignità professionale».
UN «DIBATTITO POLITICO surreale», lo definisce Bonafede che alla Camera scandisce: «Non vi fu alcuna interferenza diretta o indiretta nella nomina del capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria». Spiega che avrebbe voluto Di Matteo nella squadra ma poi pensò di affidargli gli Affari penali, ruolo «che fu di Giovanni Falcone», perché «avrebbe lavorato al mio fianco». E per mostrare la sua assoluta abnegazione alla lotta alla mafia, il ministro di Giustizia arriva a seguire il consiglio di Claudio Martelli che gli suggerisce di riportare in carcere i boss mafiosi scarcerati in queste settimane, come fece lui nel 1991.
MA L’ANNUNCIO di un decreto legge governativo per consentire ai giudici di tornare indietro sulle loro decisioni di “scarcerazione”, essendo entrati nella «fase 2» dell’emergenza Coronavirus, ha il suono di una boutade. «Partendo dal presupposto che tutti i provvedimenti dei giudici sono ricorribili – spiega Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze -, per decreto si possono solo cambiare i presupposti di applicabilità delle norme, ma per il futuro.
Non in modo retroattivo». Tanto più perché dei 300 detenuti mafiosi scarcerati in questi giorni la maggior parte è passata ai domiciliari non per scelta dei magistrati di sorveglianza ma per decisione dei giudici. «Non si può azzerare una sentenza con una legge – fa notare Bortolato – basti ricordare il caso di Eluana Englaro e il decreto con il quale l’allora governo Berlusconi tentava di fermare la decisione del giudice che aveva disposto il rispetto delle volontà della paziente: l’allora presidente Napolitano non firmò il decreto, a tutela della separazzione e dell’indipendenza dei poteri dello Stato».
MA BONAFEDE, che come dice il deputato di FI Enrico Costa ora «rischia di impiccarsi all’albero che ha concimato giorno dopo giorno», fa finta di non saperlo.
* Fonte: Eleonora Martini, il manifesto
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