Pubblicato il quinto numero di oltre il capitale,
Speciale Coronavirus.
by redazione | 31 Maggio 2020 9:57
«Se l’epidemia si aggraverà un po’, cosa possibile dal momento che è trasmissibile dall’uomo, potrebbe avere delle vere e proprie conseguenze planetarie: economiche (i modelli suggeriscono che potrebbe causare una perdita di 3000 miliardi di dollari, ovvero un crollo del 5% del PIL mondiale) e politiche […] non dobbiamo dimenticare, come per la crisi economica, di imparare da essa, in modo che prima della prossima – inevitabile – vengano messi in atto meccanismi di prevenzione e controllo, nonché processi logistici per un’equa distribuzione di farmaci e vaccini. Per fare questo dovrà essere istituita una polizia mondiale, un sistema di scorte a livello mondiale e, di conseguenza, una fiscalità mondiale. In questo modo, arriveremo in breve, assai prima di quanto lo avrebbe consentito la sola ragione economica, a porre le basi di un vero e proprio governo mondiale».
Che una crisi sanitaria planetaria possa determinare una crisi economica è pressoché certo. Forse meno scontato ma altrettanto probabile è il suo riverbero sul piano politico. Meno credibile, a prima vista, può apparire la previsione del rafforzamento di un governo mondiale, giacché, al contrario, si potrebbe pensare che i rischi di contagio spingano alla chiusura e separazione tra nazioni favorendo i sovranismi e che la crisi economica accentui le spinte protezioniste. Eppure, in un mondo ancora bloccato dal lockdown, le cose sembrano andare nella direzione della previsione di cui sopra. In Europa, secondo il centro di ricerca Europe Elects[1], i sondaggi indicano un calo generalizzato dei partiti identitari; negli Stati Uniti sono evidenti le difficoltà di Donald Trump, mentre si avvicina la scadenza delle presidenziali di novembre e stante la sua fallimentare gestione dell’emergenza sanitaria. Viceversa, la Cina, da lui violentemente attaccata a giorni alterni e contro la quale aveva da tempo innescato una deleteria e autolesionistica guerra dei dazi, sta uscendo rafforzata sul piano internazionale. Da ultimo, offrendo un ulteriore contributo di 30 milioni di dollari per la lotta contro il Covid-19 all’Organizzazione Mondiale per la Sanità, dopo che il rissoso inquilino della Casa Bianca aveva annunciato di volerle invece tagliare i fondi.
Se dalla pandemia in corso uscirà dunque indebolito il nazional-populismo, gli assi della globalizzazione nel futuro poggeranno su due poteri, complementari e concorrenti. Lo Stato del totalitarismo digitale e il capitalismo della sorveglianza. Il primo è appunto il modello cinese. Pechino pare in grado di riprendersi presto e bene dallo shock sanitario-economico. Non solo per l’intelligenza diplomatica e strategica del soft power e quella geopolitica della Nuova via della seta, nonché per il fatto di essere da tempo la fabbrica del mondo, come ben si è visto anche nella contingenza della carenza delle mascherine di protezione. Ma, ancor più, per lo stadio avanzato nello sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, con annessi i suoi risvolti militari, e delle tecnologie di controllo sociale, che si stanno imponendo a livello globale. Ed è su questo stesso piano che si è rafforzato anche il secondo potere, quello delle big tech statunitensi. Il vero governo mondiale, per il momento bicefalo, è questo. La polizia mondiale è quella che si sta testando attraverso il disciplinamento sociale del lockdown e i sistemi tecnologici avanzati di tracciamento e sorveglianza di massa.
Le precedenti epidemie
La citazione da cui parte il nostro ragionamento, tuttavia, non è di questi giorni. Risale a oltre dieci anni fa, in occasione di una precedente pandemia, quella da virus pdm09 di tipo A/H1N1, cosiddetta influenza suina. Arrivava dall’interno del sistema, dato che il suo autore è Jacques Attali, economista e banchiere internazionale a lungo ascoltato consigliere della politica francese, da Mitterand a Sarkozy (cfr. Avancer par peur[2], “L’Express”, 6 maggio 2009).
La pandemia del 2009-2010, curiosamente rimossa dalla memoria pubblica nonché, colpevolmente, dalle politiche sanitarie di prevenzione, durò quasi un anno e mezzo: dichiarata dall’OMS l’11 giugno 2009, a quattro mesi dai primi casi, fu revocata solo il 10 agosto 2010, con un bilancio di oltre un milione e mezzo di contagiati e di quasi ventimila vittime, secondo i dati ufficiali dell’OMS. Cifre che però – proprio come sta accadendo per quelle di oggi – numerosi ricercatori giudicarono sottostimate, ritenendo che andassero decuplicate e persino, considerando i decessi dovuti all’aggravamento di malattie preesistenti, moltiplicate per venti (cfr., ad esempio, AA.VV. Global Mortality Estimates for the 2009 Influenza Pandemic from the GLaMOR Project: A Modeling Study[3], 26 novembre 2013).
Si trattò di una pandemia sicuramente meno diffusa e letale dell’attuale e che, all’opposto di quest’ultima, colpì maggiormente i giovani rispetto agli anziani. Se questa volta tutto è partito dalla Cina, allora si trattò del Messico, subito seguito degli Stati Uniti e progressivamente del resto del mondo. In entrambi i casi, a partire da una zoonosi, ovvero una malattia infettiva di origine animale trasmessa all’uomo. Tali sono state pure le precedenti epidemie da coronavirus: la prima SARS-CoV (virus della sindrome respiratoria acuta severa), anch’essa originariamente insorta in Cina alla fine del 2002 e diffusasi nel 2003 con ottomila contagiati, un decimo dei quali deceduti, e il MERS-CoV (virus della sindrome respiratoria del Medio-Oriente), identificato nel 2012, che ha avuto un basso numero di contagiati e di decessi, rispettivamente circa 2500 e poco più di 800, ma un alto tasso di letalità. Anche in quei casi si ritiene che gli ospiti primari del coronavirus siano stati pipistrelli.
Dopo la precedente SARS-CoV, il Center for Disease Control, l’ente pubblico statunitense per la prevenzione e il controllo delle malattie, aveva ammonito (inutilmente, si può ora amaramente constatare) circa la possibilità di ricomparsa di quel tipo di epidemia, la necessità di attenta sorveglianza e, nel caso, la subitanea messa in atto di misure di confinamento per prevenire la trasmissione.
Da dove arrivano i virus
Da qui occorre partire, dalla considerazione su quanto tali malattie siano connesse e derivanti da un sistema suicida di distruzione degli habitat naturali e di ipersfruttamento della natura e, in particolare, delle altre specie animali. Feroce e patogeno, come si rileva da quegli allevamenti industriali intensivi in cui la Cina primeggia, ma per i quali non è certo l’unica responsabile. Basti dire, ad esempio, che Goldman Sachs, banca di investimento statunitense, dopo la crisi finanziaria del 2007-2008 ha diversificato puntando proprio sugli allevamenti di pollame della Cina (Laura Spinney, Is factory farming to blame for coronavirus?[4], “The Guardian”, 28 marzo 2020).
Oppure ricordare come i piani di deforestazione della regione amazzonica, portati avanti nel Brasile di Jair Bolsonaro, oltre a costituire una politica obiettivamente criminale, stante la gravità dei cambiamenti climatici e dei loro effetti sul pianeta, la distruzione di delicati ecosistemi e biodiversità, la violazione dei diritti delle popolazioni indigene, siano funzionali a specifici interessi economici. Uno dei principali riguarda e beneficia le industrie dell’alimentazione, nelle mani di poche multinazionali legate alla produzione e alla distribuzione di cibo e in particolare di carne e della sua filiera: dunque allevamenti, impianti di macellazione, coltivazioni di mangimi. Interessi enormi: la sola brasiliana JBS, tra i principali produttori mondiali di carne bovina e suina, ha realizzato 41,3 miliardi di euro di fatturato (nel 2018), impiega 230 mila dipendenti in circa 400 siti ed esporta in almeno 150 Paesi.
Se la precedente pandemia originava dagli allevamenti suini, l’attuale virus SARS-CoV-2, che causa la malattia Covid-19, arriva dalla fauna selvatica, probabilmente di nuovo dal pipistrello, con il pangolino come ospite intermedio. Ma le cause sono le stesse e vanno ricercate nel sistema dell’agribusiness che determina le condizioni per le zoonosi, derivate di volta in volta da animali allevati o selvatici.
Su un altro ma collegato piano, diversi studi scientifici stanno ipotizzando un nesso tra epidemie virali e condizioni ambientali e, in specifico, correlazioni positive tra una prolungata esposizione ad alti livelli di inquinamento atmosferico ed elevati tassi di letalità da Covid-19 (cfr., ad esempio, lo studio dei ricercatori CNR, Daniele Contini e Francesca Costabile, Does Air Pollution Influence COVID-19 Outbreaks?[5], aprile 2020).
I disastri sociali e sanitari del liberismo
Prendendosi, insomma, la briga di guardare in controluce la pandemia in corso, il suo sviluppo e le sue origini, dirette e indirette, si può arrivare a cogliere concause e responsabilità del sistema economico e di quel neoliberismo che in questi decenni ha, senza remora alcuna, devastato non solo l’ambiente ma, anche e assieme, lo stato sociale e la sanità pubblica in una gigantesca e globale strategia di privatizzazione dei beni comuni e di costante drenaggio di ricchezza sociale dal basso verso l’alto. Per rimanere all’Italia (ma il ragionamento vale, con le specificità del caso, a livello europeo e internazionale), lo sfascio e il depauperamento del sistema sanitario nazionale, drammaticamente evidenziatosi con i limiti, ritardi e inefficienze emersi nell’emergenza, costati migliaia di morti evitabili e solo in parte tamponati dalla dedizione e dai sacrifici del personale sanitario, è un manifesto atto di accusa contro i governi succedutisi da un ventennio a questa parte, dalla riforma Bindi a oggi.
Ciò nonostante, la gestione della pandemia ha sinora mostrato tutt’altro che un ripensamento e un’inversione di rotta rispetto a quelle politiche. Si guardi alla Lombardia, che è stata in passato punta avanzata dei processi di spostamento di risorse pubbliche verso le strutture convenzionate, e al massiccio invio di pazienti Covid-19 verso le RSA e il privato accreditato, a prezzo di un dilagare del contagio tra gli anziani e i più deboli, in una sorta di cinica e avida eugenetica. Che peraltro prelude, nella stessa direzione, a una decimazione sociale difficilmente evitabile nel futuro prossimo.
Sul piano globale Oxfam (cfr. Dignity, not destitution[6], 9 aprile 2020) prevede la caduta in povertà di altri 500 milioni di persone a causa della pandemia. In Italia si stimano possibili dieci milioni di nuovi poveri, in conseguenza del lockdown, della contrazione dell’economia, della recessione incombente, della perdita del lavoro, dell’esaurirsi dei risparmi, già prosciugati dalla crisi economica successiva al 2008, tanto che, dieci anni dopo, il tasso di risparmio degli italiani si trova ridotto al 2,5%, a fronte del 6% medio nell’area euro (Salvatore Morelli, Se crolla il mito del risparmio degli italiani, Lavoce.info[7], 17 aprile 2020).
L’immagine della lunga teoria di camion militari che trasportano bare da Bergamo a lontani e nascosti crematori resterà a lungo impressa nella memoria collettiva. Altrettanto dovrebbe essere per quella delle folle assiepate per ore e ore davanti ai Monti di pietà, come a Torino, nell’intento di vendere il possibile per sopravvivere.
L’evidenza delle statistiche e la forza di immagini simboliche ci dice – o lo dovrebbe – che la pandemia, se non altro, ha disvelato i disastri della globalizzazione liberista anche a chi sinora fosse stato distratto e induce a pensare che nulla dovrà essere come prima.
Dopo la pandemia
Dalla ricca e polifonica riflessione sviluppatasi in questi ultimi due mesi sul “dopo”, dilagata su web e social, sembra però perlopiù assente ed espunta una parola chiave e determinante: conflitto.
Se è certo che “dopo” nulla sarà come prima, non è per nulla scontato che il cambiamento vada nel senso di una maggiore giustizia sociale e di maggiori diritti, a cominciare da quello alla salute e al reddito. Quotidiani segnali, semmai, indicano una direzione e un segno inversi. A cominciare – per dirne solo una – dalla tranquilla arroganza con la quale si è consentita, sulla base di semplici e inverificate autodichiarazioni, l’attività a produzioni non indispensabili, costringendo così milioni di lavoratori a spostamenti e rischi – per sé e per gli altri – giornalieri; spostamenti che in parte vanificano i sacrifici e il rispetto delle giuste norme del distanziamento sociale e delle precauzioni da parte di tutti i cittadini. Lo si è consentito persino a produzioni che definire non necessarie è un eufemismo, essendo invece gravemente e terribilmente dannose, ancorché, evidentemente, assai lucrose: vale a dire l’industria bellica e militare.
Un fatto, oltre che immorale, pericoloso per la salute pubblica; che ha provocato la flebile protesta di poche e meritevoli associazioni e di qualche vescovo, ma che viene accettato passivamente dalla gran parte dei cittadini, disinformati o comunque in apparenza indifferenti al problema.
Questo ci indica una seconda e correlata mancanza e sottrazione, oltre a quella del conflitto, archiviato spesso anche a sinistra come inservibile arnese del Novecento: quella di una visione e una cultura critiche, di una capacità di immaginare e desiderare un mondo diverso. Che sono precondizioni indispensabili per cercare di costruirlo.
Senza un progetto di trasformazione e senza mettere in discussione ed esercitare conflitto contro questo sistema fondato sul profitto a ogni costo (laddove, come sempre, e come si è confermato senza vergogna pure in questa tragica pandemia, i costi sono sempre pubblici e i profitti solo privati), oltre che, non secondariamente, sulla guerra e sulla distruzione, il dopo non potrà che somigliare al passato. O, peggio, al presente. Vale a dire a un tempo di eccezione, con le libertà individuali e sociali compresse e con le procedure e i controlli democratici aggirati e cestinati.
Democrazia e totalitarismo digitale
Sta succedendo nell’Ungheria di Orbán, mentre le istituzioni comunitarie, al solito, si comportano come le tre proverbiali scimmiette, ma pure in altri Paesi; in forme sicuramente diverse, ma non meno inquietanti e suscettibili di progressivi slittamenti. Italia compresa. Dove sembra essersi (provvisoriamente) concluso quel processo di sostituzione e svuotamento del potere legislativo da parte dell’esecutivo che data dagli anni Settanta del secolo scorso. Vale a dire all’epoca cui risale la “madre di tutte le emergenze”, quella contro il terrorismo, che si è sedimentata, perfezionata, tecnicizzata, tecnologizzata e globalizzata nel corso degli anni.
Dalla dichiarazione di emergenza coronavirus, datata 31 gennaio, vi è stato un proliferare incontrollato, nel senso che poco è trasparente e reso pubblico, di tavoli tecnici, esperti e task force. La prima è stata istituita ancor prima, il 22 gennaio, con «compito di coordinare ogni iniziativa relativa al fenomeno coronavirus 2019-nCoV». In aprile sono arrivate a essere 15, con quasi 500 consulenti coinvolti. Sono stati, a quel momento, emessi oltre 200 atti normativi nazionali (cui sono da aggiungere quelli locali e regionali); solo uno (uno!) è di fonte parlamentare. Oltre i tre quarti (157) sono di emanazione, nell’ordine, di: ministero della Sanità, Protezione civile, Presidenza del Consiglio dei ministri, ministero dell’Interno, Commissario straordinario (Openpolis, Task force per la fase 2, un invito alla trasparenza[8], 15 aprile 2020).
Tutto ciò avviene in presenza di dati sui contagi e sui decessi dubbi e sicuramente sottostimati. Il numero dei contagiati diffuso quotidianamente in questi mesi è di per sé non indicativo, poiché dipende dal numero di tamponi effettuati che, Veneto a parte, si è, sciaguratamente, teso a contenere il più possibile e a non effettuare persino sui sanitari più a rischio e già venuti a contatto con malati Covid-19. Oltre a ciò, solo a due mesi di distanza la Protezione civile ha iniziato a diffondere la cifra delle persone testate e non solo quella dei tamponi eseguiti. E la differenza è sensibile, dato che ora si sa che sono stati fatti 1.398.024 tamponi su 943.151 persone, quindi oltre 450 mila persone sono state testate più di una volta (Lorenzo Ruffino, Coronavirus: ecco quante persone sono state testate in ogni Regione[9], Youtrend, 21 aprile 2020).
A cifre incerte, poco significative o nascoste, naturalmente corrispondono strategie di contrasto e misure altrettanto dubbie, come i risultati drammaticamente evidenziano. L’Italia, pur avendo le misure di lockdown più rigide, sta ottenendo magri risultati e record di decessi. La colpa, naturalmente, è dei cittadini non di chi li governa e li ha rinchiusi in casa, colpevolizzati a reti unificate e criminalizzati, inseguendoli con droni, spesso maltrattandoli e multandoli. E che ora, infine, li vuole sottoporre a sperimentazioni di sorveglianza digitale di massa su modello cinese e con un’app di contact tracing scelta, al solito, senza alcuna trasparenza e sviluppata dalla start up Bending Spoons, nella cui compagine societaria è presente una holding giustappunto di Hong Kong.
C’è una certa pericolosa ingenuità nell’immaginare, come paiono far molti, che chi ha portato il mondo in questa situazione, chi ha la responsabilità delle scelte distruttive degli equilibri ambientali, della rapina dei beni comuni, della scientifica demolizione dei sistemi sanitari pubblici, del saccheggio della ricchezza sociale, di diseguaglianze abissali e così via, miracolosamente, da domani, o dopodomani che sia, si ritirerà, finalmente consapevole e pentito, mentre la giustizia sociale e climatica si affermerà motu proprio.
Senza la capacità di pensare, condividere e costruire un complessivo progetto di alternativa, culturale, politica e sociale, senza riconversione ecologica dell’economia, senza un cambiamento radicale del sistema e dei suoi paradigmi, senza conflitto, il dopo che ci aspetta sarà peggiore del prima.
* Sergio Segio, questo articolo è stato pubblicato dalla rivista “Oltre il capitale”, maggio 2020
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