Il Covid-19 non ferma le proteste in America latina
Di fronte alla fame non c’è quarantena che tenga. Così, se il Covid-19 era riuscito finora a liberare le strade dell’America latina dalle proteste anti-governative, tutto indica che il coperchio sta nuovamente per saltare.
La pressione sale in particolare in Ecuador, dove lunedì gruppi di lavoratori e di studenti hanno violato le misure restrittive adottate contro la pandemia per protestare contro l’annuncio del presidente Lenin Moreno di un taglio di oltre quattro miliardi di dollari alla spesa pubblica.
Neppure le minacce lanciate dal segretario generale della presidenza, Juan Sebastián Roldán, rispetto alla «grave responsabilità penale» legata al mancato «rispetto della legge e della normativa sanitaria» sono bastate a intimidire i manifestanti.
Che sfidando la repressione sono scesi in piazza in diverse regioni del paese contro i tagli all’educazione, la riduzione dei salari degli impiegati pubblici, la chiusura di imprese statali e pure contro la cosiddetta “Legge umanitaria”, approvata il 15 maggio al presunto scopo di salvare l’occupazione, ma in realtà diretta a scaricare sui lavoratori tutto il peso della crisi economica.
«Con questa legge tutt’altro che umanitaria torneremo tutti a essere schiavi», ha denunciato il presidente del Frente unitario de Trabajadores, Mesías Tatamuez, esigendo dal governo uno stop al pagamento del debito estero per fronteggiare l’emergenza.
È rimasta ancora alla finestra la Conaie, la potente Confederazione delle nazionalità indigene già protagonista dell’insurrezione dello scorso ottobre. Ha deciso, «por ahora», di concentrarsi sulla protezione delle comunità, ma lanciando un esplicito messaggio al governo: «A tempo debito scenderemo in strada per esigere dal presidente la deroga di questi decreti».
Segnali di ripresa delle mobilitazioni arrivano anche dal Cile, dove il Covid-19 ha messo necessariamente in stand-by la rivolta contro Piñera esplosa il 18 ottobre scorso. Diverse manifestazioni hanno luogo da giorni a Santiago dove, ancora martedì, la gente è scesa in strada per protestare contro l’abbandono delle fasce più vulnerabili e i ritardi degli aiuti promessi dal governo per far fronte alla crisi.
La sola risposta che i manifestanti hanno ottenuto è però l’unica di cui sembra capace Piñera: la repressione dei carabineros a colpi di idranti e di gas lacrimogeni e la condanna del prefetto Felipe Guevara, secondo cui la mancanza di cibo «non giustifica» la violazione della quarantena.
Nel paese con il più alto numero di contagi per milione di abitanti, le cosiddette «proteste per la fame» non sono però destinate a spegnersi: mentre il sistema sanitario è vicino al collasso, la famigerata “Legge di protezione dell’impiego” ha prodotto la sospensione dei contratti di lavoro per almeno 600mila persone.
Proteste e blocchi stradali sono ripresi anche in Bolivia dove a La Paz, a Cochabamba, a Santa Cruz e in altri luoghi diventano sempre più frequenti le manifestazioni contro la gestione della pandemia da parte del governo di Jeanine Añez e contro il ritardo nella convocazione delle elezioni generali (che avrebbero dovuto svolgersi il 3 maggio).
Nel braccio di ferro tra il Congresso dominato dal Movimiento al Socialismo, che ha fissato come termine ultimo per la realizzazione delle elezioni il 2 agosto, e il governo golpista, interessato a posticipare quanto più possibile il processo elettorale, il vicepresidente del Mas Gerardo García ha lanciato un chiaro ultimatum: se entro il 31 maggio l’organo elettorale non fisserà la data del voto, «non riusciremo più a contenere la base».
* Fonte: Claudia Fanti, il manifesto
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