by redazione | 27 Maggio 2020 15:34
Tra le novità più significative di questi mesi in carcere è stato lo sdoganamento delle tecnologie della comunicazione e la legalizzazione di quella mobile. Non parliamo, qui, del digital divide, che pure segna l’esperienza di tanti studenti e docenti che la didattica a distanza la hanno potuta fare o seguire con beneficio d’inventario, scontando connessioni lente, strumenti obsoleti o, semplicemente la loro assenza o insufficienza. La disuguaglianza sociale (e territoriale) ormai si misura anche, se non principalmente, sulla distribuzione di questi beni e di queste infrastrutture. Ma questa è vicenda ormai nota: se ne legge sulle pagine dei giornali, nei racconti di studenti e insegnanti alle prese con la conclusione dell’anno scolastico e con la programmazione del nuovo.
In carcere la disuguaglianza si riflette per la stessa ragione costitutiva dell’istituzione: la sofferenza della pena si misura in un regime di privazioni che risponde al principio della less eligibility della condizione penitenziaria rispetto a quella esterna. Quella disuguaglianza diventa poi una disuguaglianza al quadrato rispetto alle opportunità della società dell’informazione. La popolazione detenuta, in gran parte selezionata tra le fasce meno abbienti della società, viene privata anche di quelle poche risorse e competenze digitali acquisite all’esterno per poter apprezzare il carattere sanzionatorio della pena cui è sottoposta. Questa degradazione, con il tempo, si è trasformata in un vero e proprio tabù, che ha reso il carcere impermeabile alle tecnologie dell’informazione e che ha visto progressivamente allargarsi il divario tra il mondo di fuori e il mondo di dentro.
Progressivo è lo scollamento tra un mondo che rimane sempre uguale a sé stesso e un altro che cambia a ritmi sempre più rapidi. E così è successo nell’uso della rete e della comunicazione digitale: i detenuti sono gli ultimi mohicani che scrivono a mano la loro corrispondenza. Quando va bene, la mandano attraverso società di servizi, che scannerizzano e trasmettono le loro parole ai destinatari, rivalendosi sull’utenza (i detenuti) facendogli pagare il costo del lavoro di mediazione prestato. Quando va male, la corrispondenza dei detenuti arriva in originale cartaceo, con busta e francobollo e l’antica usanza dell’anonimizzazione del domicilio, identificabile solo da occhi esperti – tramite l’indirizzo e il numero civico – come un istituto di pena.
Un baratro, invece, si apre quando l’innovazione tecnologica esterna nelle pubbliche amministrazioni produce un salto che rende inutilizzabili le procedure tradizionali. È successo così, in questi anni, nelle carceri, per le procedure di invalidità e di disoccupazione, per gli accrediti e il trasferimento di indennità, remunerazioni e contributi alle risorse familiari, fino a quelle per l’iscrizione ai corsi universitari. Hanno ovviato, nei modi più generosi e più creativi, volontari, personale penitenziario, patronati, associazioni e garanti di ogni ordine e grado.
Tutto per un consolidato tabù, iscritto – nel linguaggio del carcere – alla voce “ordine e sicurezza”, il passepartout per ciò che non deve essere giustificato dall’Amministrazione penitenziaria. Ne discussi, molti anni fa, con l’allora Direttore generale dei detenuti e del trattamento del DAP (avevo un ruolo istituzionale che lo costringeva a rispondere con cortesia alle mie insistenze). Internet è una modalità di informazione e di comunicazione, la posta elettronica una modalità di comunicazione. Informazione e comunicazione non sono precluse ai detenuti e solo in casi eccezionali (41bis e alcune persone in attesa di giudizio) sono sottoposte a censura. Altrimenti sono protette dagli articoli 15 e 21 della Costituzione, prima che dalle norme di legge e regolamento. Dunque, perché non liberalizzare l’accesso a Internet e alla posta elettronica per tutti i detenuti che non hanno vincoli sulla corrispondenza, chiedevo al mio interlocutore. Per “ordine e sicurezza”, era in sostanza la risposta: «e che ne sappiamo che ne faranno di Internet o della posta elettronica? E se attraverso la rete dovessero commettere dei reati?».
Alle mie contro-obiezioni («in carcere non ci si sta perché non si commettano dei reati, ma perché li si è commessi, o si è accusati di averli commessi, altrimenti potremmo starci tutti in galera, essendo tutti dei potenziali violatori della legge penale» e, d’altro canto, «reati si possono commettere anche in stanza o in sezione, aggredendo un compagno, danneggiando un bene dell’amministrazione, oltraggiando un poliziotto o chissà che altro, e allora che si fa? Tutti in cella liscia e senza comunicazione con il personale?»), il mio interlocutore – forse spazientito – si rifugiava nel principio di less eligibility, secondo cui, in fondo, detenuti hanno qualcosa da scontare e non possono avere le stesse opportunità e gli stessi diritti di noi che stiamo fuori.
Questo retropensiero sta dietro le farraginosità burocratiche con cui l’Amministrazione penitenziaria si è cimentata negli anni con l’accesso a Internet per i detenuti (eccezionale e limitato a una white-list di siti accessibili) o con i video-colloqui via Skype (sperimentali fino alla rarefazione). Poi, improvvisamente, il Covid-19, la chiusura dei colloqui, le proteste dei detenuti e il tabù è saltato: in pochi giorni, per allentare la tensione che si era generata, sono arrivati in carcere 3000 smartphone e migliaia di detenuti hanno potuto rivedere i loro ambienti domestici e familiari che per problemi economici o di salute non andavano a colloquio da anni. Improvvisamente, il mondo si è fatto piccolo anche per i detenuti. Non solo: il nuovo (e ormai già ex) Direttore generale dei detenuti e del trattamento ha aperto la strada all’uso delle tecnologie della comunicazione per la didattica a distanza rivolta ai detenuti, una cosa chiesta da anni, in particolare da studenti e docenti dei poli universitari penitenziari, e necessaria e urgente per i detenuti che nelle prossime settimane dovranno affrontare gli esami di fine ciclo scolastico, delle medie e delle superiori.
Come spesso in carcere, l’applicazione delle migliori intenzioni non ha prodotto dappertutto gli effetti sperati, ma il tabù si è rotto e da qui non si può tornare indietro: la rete e le comunicazioni a distanza in carcere si possono, e dunque si devono, utilizzare. Si devono utilizzare per garantire ai detenuti tutti i diritti di cui sono titolari e per offrire loro tutte le opportunità di reinserimento sociale imposte dall’articolo 27 della Costituzione.
Questo è il piccolo bene che al carcere è venuto dal grande male del Covid-19. Ora la sfida sta nel non disperderlo, come la Conferenza del volontariato della giustizia chiede e come il Garante nazionale ha raccomandato di fare. Anzi, rotto il tabù, bisogna andare avanti nell’allineamento del carcere al mondo di fuori, nella comunicazione del carcere con il mondo di fuori.
* Portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Garante per le Regioni Lazio e Umbria
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