by redazione | 27 Maggio 2020 15:27
Cara Ministra. Come docente di sostegno e di arte della scuola secondaria di primo grado sento il bisogno di parlare a nome di tutti i ragazzi svantaggiati e riguardo a tutte quelle materie scolastiche che non sono conciliabili con una didattica a distanza
In questo periodo di crisi sanitaria, sociale ed economica è arrivato il momento di ripensare la scuola e di dare voce alla scuola dell’obbligo. Come docente di sostegno e di arte della scuola secondaria di primo grado sento il bisogno di parlare a nome di tutti i ragazzi svantaggiati e riguardo a tutte quelle materie scolastiche che non sono conciliabili con una didattica a distanza. Inoltre, mi auguro che queste mie riflessioni possano mettere in luce la scuola dell’obbligo, troppo spesso trascurata nelle dichiarazioni degli ultimi mesi così come il lavoro e l’impegno di quei tanti docenti che vi lavorano e che si sono dovuti adattare a circolari ministeriali e direttive dei dirigenti. È stato umiliante accorgersi che non è stato predisposto alcun piano che potesse raggiungere realmente tutti gli studenti e a tutt’oggi, anche in vista del prossimo anno scolastico, ancora poco se ne parla.
La telematica e gli strumenti informatici stanno fatturando milioni di euro. Ma al netto di questi guadagni dei privati, l’iniziativa del ministero di voler dare in comodato d’uso Pc e Tablet alle famiglie non sempre sta funzionando a causa dei ritardi burocratici e delle modalità di concessione.
Da diversi anni la scuola si è attrezzata con strumentazioni informatiche (il registro elettronico, aule informatiche e lavagne multimediali) che hanno modificato la didattica e la relazione docente-studente. Cambiamenti che non possono esser assunti senza una visione critica sul loro utilizzo. Il registro elettronico, ad esempio, velocizza una burocrazia scolastica, ma è anche un rigido strumento di valutazione, luogo in cui la privacy del docente è compromessa.
La scuola entra nelle case e le famiglie controllano figli e docenti; gli alunni vengono assoggettati alle regole della disciplina e del controllo senza poter minimamente assumersi quelle sane responsabilità di un quattro o di un ritardo scolastico. Uno strumento “moderno”, che sembra avvicinare la scuola italiana al progresso della tecnologia, nasconde in sé implicazioni troppo spesso pericolose e difficili da arginare e lo stesso mi sembra stia avvenendo con la tanto propagandata didattica a distanza.
Il rapporto docente-studente fondato sulla reciproca stima, fiducia, comprensione, quella marcia in più che appartiene al bravo docente nel saper cogliere la potenzialità nascosta dell’alunno, la dialettica costruttiva fondata sul senso critico, decadono. Con la didattica a distanza non c’è spazio per la capacità di saper guardare oltre le apparenze, oltre gli eventi storici, per tutte le attività psicomotorie, le espressioni artistiche e i linguaggi grafici che sono le basi imprescindibili per una didattica valida.
Da molto tempo i ragazzi sono bombardati da slogan mediatici con un vocabolario linguistico spesso ridotto ed hanno bisogno di ritrovare la personale creatività nello stare insieme a scuola senza prestare il fianco a una didattica impostata solo con schede, X o Y, nozioni prestabilite, concetti comuni e più delle volte obsoleti. Ci vuole davvero tanta creatività e immaginazione per superare la realtà che ci circonda!!!
E la didattica a distanza non può certo essere risolutiva… eravamo già così distanti dai ragazzi, che ci mancava solo lo spazio virtuale! Io non nego la tecnologia, io aborrisco l’uso che si fa dello strumento tecnologico. Quando la macchina si sostituisce all’essere umano, gli insegnanti diventano tutti i replicanti di un modello dettato da circolari ministeriali, indicazioni dei consigli di istituto, direttive del dirigente scolastico, protocolli di intesa con i Municipi e consigli dei comitati dei genitori.
Con la didattica a distanza evidenziamo le disuguaglianze sociali e colpevolizzato le diversità; parliamo solo di quello che manca, delle assenze, valutiamo solo le mancanze, le lacune, le povertà linguistiche, le difficoltà di lettura o di scrittura, l’insufficienza logico matematica. Si tende a usare lo stesso criterio di valutazione di prima senza considerare che adesso lo strumento didattico è solo uno e la comunicazione ne risulta ridotta.
Insegnanti come attori di un teatro sempre più in decadenza, che vestono i panni ora di guardie carcerarie, ora di giudici, ora di missionari e per finire di babysitter. Giullari di Corte, pagliacci frustrati, privati di buon senso e coscienza personale, incompetenti giovani e paurosi. Noi insegnanti ci siamo dovuti assoggettare a riforme scolastiche e decreti ministeriali che hanno modificato il nostro ruolo perdendo di vista la funzione educativa e la competenza professionale al di là della conoscenza disciplinare. La scuola, da anni, si sta riempiendo di sigle, etichette, acronimi di difficile comprensione ma che sottintendono una selezione di categorie sociali: BES, DSA, H., ecc.
Come docenti di sostegno siamo insegnanti della classe, non operatori sanitari, psicologi, assistenti sociali, né tantomeno missionari. Il PEI (piano educativo individualizzato) che dovrebbe essere confrontato in un consiglio di classe all’inizio dell’anno scolastico spesso viene dimenticato dai docenti della classe; resta il più delle volte un memorandum personale del docente di sostegno mentre dovrebbe essere preso in considerazione da tutti i docenti prima di predisporre la personale programmazione didattica. Spesso ci troviamo a sostenere il docente curriculare e a relazionarci con il ragazzo svantaggiato come se fosse un problema personale.
L’arroganza e la presunzione esercita a volte un abuso di potere del docente curriculare che vive l’incomunicabilità e l’impotenza di esercitare una didattica differenziata o privilegiata comportandosi con atteggiamenti discriminatori. Accade, infatti, che il ragazzo con disabilità divenga un problema e se non si è riusciti a isolarlo dalla classe nella scuola, ci si è riusciti, invece pienamente, attraverso la didattica a distanza. Mi riferisco per esempio ad un fatto increscioso in cui un giovane docente si è permesso di isolare dalla piattaforma on line un alunno disabile dichiarando che disturbava la lezione, invitando la docente di sostegno ad eseguire lezioni individuali in altro orario con il consenso della famiglia. Il docente, fiero di poter offrire un rapporto privilegiato e di recupero all’alunno, ha sottovalutato, però, il fatto che si è leso il diritto allo studio e all’inclusione scolastica del ragazzo con disabilità.
La didattica a distanza sta favorendo atteggiamenti indiscriminati, l’abbandono scolastico e una forte discriminazione sociale e culturale. Il potere dello schermo! La beffa del computer! Il lascia passare di gestioni didattiche e disciplinari autonome.
Facciamo che la distanza fisica non diventi una distanza sociale. Il problema della dispersione scolastica già fortemente evidenziata nelle precedenti statistiche oggi risulta essere in serio aumento. Facciamo in modo che non diventi abbandono concreto della scuola e sfiducia nelle istituzioni. La scuola italiana e la sua cultura di trasmissione orale, di senso critico, analisi e preposizione innovativa si distingue da quel fare scuola di molti Paesi, con test, schede, domande a quiz, con il consolidato principio di un apprendimento nozionistico e lacunoso, povero, privo di quella spina dorsale che motiva e spinge gli alunni nella direzione propositiva di un futuro innovativo e culturalmente umanista che non può prescindere dalla relazione sociale.
Parlando con i ragazzi, nessuno di loro sostituirebbe la scuola tradizionale con la didattica a distanza e dopo due mesi, molti sono stanchi e provati, sono disorientati e anche deprivati di quella sana libertà e responsabilità personale che li rende maturi e consapevoli delle proprie scelte riguardo allo studio. L’attività didattica degli ultimi due mesi li ha fatti precipitare sotto il diretto controllo dei docenti prima e dei genitori dopo. Quindi didattica a distanza e totale controllo della famiglia!
Si parla tanto della distanza di sicurezza, della prevenzione, mai come in questi tempi di Coronavirus potremmo approfittare per rivedere seriamente il numero degli alunni nelle classi, mai come ora potremmo applicare una didattica più efficace e costruttiva senza trasformare un alunno in “numero”. Ma la prassi burocratica ministeriale continua a fare tagli sull’organico negando il tempo prolungato e delegando al “meccanografico” responsabilità e risparmio economico.
Gli alunni continuano ad essere identificati come numeri e i ragazzi diversamente abili scompaiono nel marasma delle certificazioni, sigle, definizioni e dinamiche burocratiche.
La salvaguardia di un’istituzione come quella della scuola pubblica non può soltanto riguardare la lotta contro il precariato, i concorsi a cattedra, le abilitazioni all’insegnamento, seppur fondamentale e urgente.
Abbiamo lottato tanto, noi docenti “attempati”, affinché si accorciasse la distanza tra “casa” e “scuola”, tra famiglia e insegnanti. Era un modo per coinvolgere famiglie e insegnanti attraverso il dialogo, il confronto con l’obiettivo comune di formare validi cittadini futuri. Il filo di congiunzione è stato reciso da tempo e la didattica a distanza non ha avvicinato o accorciato la distanza, come si vuol far credere, ma bensì ha allontanato ancora di più, ha chiuso le bocche ai docenti e ha dato potere esecutivo didattico ai genitori che si sono trovati a fare gli insegnanti scoprendo le difficoltà dei propri figli, a loro spesso sconosciute.
Lo ripeto, non nego la validità dello strumento o del mezzo tecnologico in questo momento storico particolare, nego invece la sua capacità di trasmissione culturale, di relazione, di coinvolgimento e curiosità didattica. Mai come in questo momento è bene ricordare che l’appropriazione individuale di un concetto, di un contenuto non può essere univoco, ognuno secondo il proprio bagaglio culturale utilizza un’espressione di comunicazione propria che non può essere espresso attraverso una videocamera.
“È inutile chiedere ad una persona come vede il rosso. Non saprebbe spiegarlo. Le circostanze che due individui chiamano rosso il sangue o un certo fiore o un determinato vestito, non prova affatto l’identità delle loro sensazioni. Prova unicamente che essi parlano italiano”. Erwin Schrödinger
* Fonte: Jole Falco, il manifesto[1]
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