I dati nascono infatti dalle svariate forme della comunicazione umana che si sono succedute dalla nascita del web. Da allora hanno cominciato a girare per nuovi territori, a sperimentare nuovi modi per essere recuperati, a sviluppare nuove forme di consumo.
Come ricordava Benedetto Vecchi in un’intervista a Massimo Franchi in Diritti Globali, «il web è un bene comune perché prodotto dalle nostre relazioni umane. Poco importa se gli investimenti iniziali siano stati statali, militari, universitari. Era usato per comunicare, cioè per quell’attività che è una caratteristica della nostra specie animale. C’è poi qualcuno che se ne è appropriato. C’è stata una accumulazione primitiva e un’espropriazione da parte di imprese private».
Dall’accumulazione primitiva, come ormai ben sappiamo, siamo entrati in una fase nuova e successiva anche di estrazione: oggi il valore per le grande aziende (pensiamo a Cambridge Analytica) e per gli Stati (pensiamo allo scandalo Nsa) è l’estrazione di dati da noi stessi. Siamo noi a consegnare la base delle ricchezze alle grandi piattaforme.
É piuttosto singolare che nei ragionamenti effettuati in queste settimane non si sia fatto riferimento alla tendenza globale in atto da tempo, verso un capitalismo della sorveglianza di cui spiega genesi e caratteristiche un libro uscito proprio l’anno scorso, dunque particolarmente attuale. Shosana Zuboff in The Age of Surveillance Capitalism. The fight for a human future at the new frontier of power (edito in Italia da Luiss University Press con il titolo Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri) chiama questo processo la «terza modernità», nella quale la logica economica è subordinata a un nuovo contesto che prevede la trasformazione comportamentale della popolazione. Il Covid ha accelerato questa tendenza o sta per farlo.
In Cina l’uso dei Big Data da parte di aziende e governo non è un mistero ed era già quotidianità, da noi forse finirà per rendere più rapido qualcosa di già in nuce.
Il sindaco di Firenze Daniele Nardella, qualche mese fa, annunciava che la sua città sarà la più videosorvegliata d’Italia; siamo già nel capitalismo di sorveglianza di cui i Big Data costituiscono uno straordinario pilastro, come spiegato da Teresa Numerico sul manifesto: non siamo di fronte a «una semplice erosione della privacy, ma una privazione della libertà personale senza processo, senza interlocuzione e senza nemmeno capo d’imputazione. Siamo alla sospensione dell’habeas corpus, una delle basi della civiltà giuridica moderna, prima ancora che democratica».
Il fatto è che siamo di sicuro in una fase complicata, pieni di dubbi ma con la certezza che dopo questa epidemia uscirà un mondo diverso. David Harvey, Eric Fassin, Eric Holthaus e tanti altri sono arrivati in questi giorni alla medesima conclusione: il capitalismo è a un giro di boa.
L’economista Simon Mair su The Conversation immagina addirittura quattro possibilità; dal punto di vista economico, ha scritto «ci sono quattro possibili futuri: una discesa alla barbarie, un solido capitalismo di stato, un socialismo di stato radicale e una trasformazione in una grande società costruita sull’aiuto reciproco».
È in questo spazio di attesa, di emergenza non ancora «normalizzata», che si annidano i bisogni di radicalità: non basta dire «no», «forse», «sì ma», serve pensare a mettere in discussione l’intero sistema su cui poggia l’estrazione e l’utilizzo dei Big Data, la vita delle piattaforme e quella dei lavoratori che hanno come compito principale quello di nutrire le macchine di dati.
Anche in questo caso il capitalismo della sorveglianza è già esteso: i labellers (etichettatori) cinesi e i mechanical turk di Amazon non fanno una vita tanto diversa e assolvono alle medesime mansioni: far comprendere alle macchine e agli algoritmi i dati. I due elementi sono molto più collegati di quanto pensiamo.
Questi temi non sono solo legati a questo particolare momento: confermarli, assentire anche con riserva, significa accettare il pacchetto completo in realtà. Concepire i Big Data come beni comuni, appartenenti alla cittadinanza, come suggerisce Benedetto Vecchi nell’intervista citata, invita a riprenderci quanto ci è stato tolto.
Una concessione oggi, anziché farci ritrovare in un mondo dove potremmo ripensare le logiche dei nostri comportamenti, come ha avvisato Snowden, rischia di catapultarci in una «nuova normalità» in cui il capitalismo di sorveglianza si afferma: cosa potrebbe succedere, ad esempio, dopo l’emergenza, con gli strumenti in dotazione agli Stati e alle aziende private per controllare le reazioni a determinati messaggi attraverso videocamere in grado di cogliere pulsazioni e temperatura corporea?
* Fonte: Simone Pieranni, il manifesto
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