L’app per la sorveglianza di massa. Ma c’è chi dice no ai big data
Dopo la confusione dei giorni scorsi, il governo cerca di rimediare al pasticcio della app «Immuni», il software con cui il nostro telefono dovrà registrare le persone con cui entriamo in contatto per poterle rintracciare qualora nel nostro entourage emerga un caso positivo al Coronavirus. Nei giorni scorsi erano circolate versioni contraddittorie sul sistema adottato. Il dibattito principale concerne la privacy, che dipende in gran parte da come verranno archiviati i dati sui contatti tra le persone.
Gli esperti sono divisi tra chi immagina un sistema di memorizzazione dei contatti “distribuito”, in cui la maggior parte delle informazioni rimane sui telefoni degli utenti, e un sistema centralizzato, in cui un archivio memorizza la rete dei contatti tra i telefoni (anche se in forma anonima). Il rischio di violazioni della privacy è reale. La app adottata dal governo olandese lo dimostra, con 200 nomi di privati cittadini finiti sul web dopo pochi giorni e il ritiro frettoloso del software.
LA PRIMA A TENTARE di rassicurare tutti è stata la ministra Pisano. In una nota, ha rimarcato che la task force che ha scelto la app si è mossa senza mai derogare ad alcuni principi: trasparenza, rispetto della privacy, non-obbligatorietà dell’installazione. La ministra ha anche ricordato che l’esame delle soluzioni della sua task force era solo il primo stadio di sviluppo del progetto, e che a stipulare il contratto con le società che realizzeranno la app non è lei, ma il Commissario straordinario Domenico Arcuri, l’unico a conoscere cosa davvero farà la app.
E IERI MATTINA, nella consueta conferenza stampa del martedì, Arcuri ha iniziato proprio dalla «app». Ha precisato che i dati della app saranno archiviati in un server «pubblico e italiano» e che la riservatezza sui dati personali è «una delle libertà fondamentali». Installare la app rimarrà una libera scelta dei cittadini: nessuno al governo pensa di «fornire un lasciapassare solo a chi scarica la app sul proprio telefono». Gli ha fatto eco il premier Giuseppe Conte, durante l’informativa in Senato: «Non ci saranno limitazioni per chi non la scarica».
Quando però si è trattato di descrivere la tecnologia scelta, Arcuri non è stato rassicurante. Ha spiegato per esempio che «sarà necessario che questa applicazione si possa connettere al Sistema sanitario nazionale» in modo che le autorità sanitarie possano intervenire rapidamente, e non dovrà fornire semplici avvisi agli utenti. Ma l’intervento attivo della Sanità sembra incompatibile, almeno a prima vista, con l’anonimato dei tracciati.
IL TENTATIVO del governo di fare chiarezza, dunque, è riuscito a metà. Da un lato il codice sarà trasparente e l’adesione avverrà su base volontaria senza sanzioni per gli scettici; dall’altro non è chiaro se per il contact tracing verrà creato un enorme database in cui sarà disegnata la rete delle nostre relazioni. «La ministra Pisano ha scritto di sposare diverse modalità di archiviazione dei dati, ma non si è resa conto che sono incompatibili tra loro. Quale si sceglierà?», chiede Carlo Blengino, avvocato e membro del Nexa Center for Internet and Society del politecnico di Torino, un centro di ricerca dedicato al delicato rapporto tra tecnologie e società. «Si pensa che con l’avvento di colossi come Google e Facebook la nostra privacy sia già compromessa. Ma se Google o Facebook abusano dei miei dati posso ricorrere alle leggi che mi difendono. Se gli abusi sono commessi dallo Stato siamo disarmati. Quindi, se si stabilisce che il contact tracing deve essere fatto dallo Stato, deve sottostare agli stessi limiti». Il Nexa Center ha pubblicato lunedì una «lettera aperta» ai decisori politici: «La scelta di una tecnologia di tracciamento del contagio per la gestione della cosiddetta “fase 2” sia aderente e non in deroga alle garanzie dettate dalla normativa europea in tema di protezione dei dati personali e più in generale ai diritti fondamentali», sottoscrivono le centinaia di accademici che l’hanno firmata.
«LA APP DEVE ESSERE inserita in un sistema di prevenzione sanitaria più ampio, fatta di persone in carne ed ossa com’è avvenuto anche nei Paesi che più hanno usato la tecnologia», sottolinea anche Stefano Zanero, informatico del Politecnico di Milano, «dunque è impossibile valutarla in sé, se non viene chiarito il contesto in cui si inserisce». Inoltre, anche se si costruisse una banca dati di informazione del tutto anonima, il rischio per la privacy non verrebbe azzerato. «Una rete anonima può essere de-anonimizzata, lo abbiamo dimostrato proprio noi al Politecnico con la rete di Bitcoin – racconta Zanero – La migliore protezione dei dati consiste nel non memorizzarli affatto».
* Fonte: Andrea Capocci, il manifesto
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