by Giuliano Battiston * | 1 Marzo 2020 9:11
Gli studenti coranici parlano di una «vittoria collettiva dell’intera nazione di musulmani e mujaedin», oltre che di «un’intesa sulla fine dell’occupazione». La società afghana accoglie con un misto di speranza e preoccupazione
Da un lato del tavolo Zalmay Khalilzad, inviato del presidente degli Stati uniti, Donald Trump, dall’altro mullah Abdul Ghani Baradar, uomo della vecchia guardia, a capo della delegazione politica dei Talebani. Ieri pomeriggio a Doha, in Qatar, sono stati loro due a firmare uno storico accordo che Trump incasserà elettoralmente nei prossimi mesi, gli studenti coranici già rivendicano come una vittoria, e la società afghana accoglie con un misto di speranza e preoccupazione.
LA SPERANZA CHE LA VIOLENZA possa cessare davvero, o ridursi significativamente come accaduto nei 7 giorni di tregua parziale iniziati il 22 febbraio, che hanno anticipato la firma di Doha. E la preoccupazione che l’intesa salti, che non equivalga davvero alla pace, o che i Talebani, guadagnata la patente di legittimità politica a cui ambiscono da anni, possano tornare a esercitare il monopolio della forza e a imporre istituzioni e codici sociali inaccettabili. Rendendo ancora più difficile soddisfare le richieste di giustizia fin qui inevase.
TUTTO QUESTO L’ACCORDO non lo dice. Ribadisce e precisa i quattro punti che erano stati già concordati nel settembre scorso, dopo mesi di negoziati, prima che il presidente Trump facesse saltare la firma all’improvviso, avvenuta infine ieri. L’accordo prevede il ritiro di tutte le truppe straniere dal Paese e dalle basi militari; l’impegno dei Talebani a impedire che il territorio afghano venga usato da gruppi jihadisti contro la sicurezza degli Usa e degli alleati; l’inizio, il 10 marzo, dei dialoghi intra-afghani, tra Talebani e rappresentanti delle istituzioni e della società, con la discussione di un cessate il fuoco prolungato.
Il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, che ha presenziato alla firma, ha sottolineato che si tratta di un’occasione storica, per poi aggiungere che siamo solo all’inizio di un lungo percorso che non assicura la pace, ma cerca di favorirla.
L’ACCORDO SI BASA su meccanismi che legano ciascuno degli impegni agli altri. Entro 135 giorni dalla firma ci sarà la riduzione a 8.600 degli attuali 13.000 soldati americani in Afghanistan, una riduzione proporzionale delle truppe che fanno capo alla missione della Nato, il ritiro da 5 delle 9 basi militari controllate dagli Usa. Se i Talebani rispetteranno gli impegni sul controterrorismo e sul dialogo con il governo, è previsto il ritiro completo entro i successivi 9 mesi e mezzo, comprese le basi. In 14 mesi, se l’accordo verrà rispettato, i Talebani potranno dunque dire di aver liberato il Paese dalle truppe di occupazione, dopo un lungo e sanguinoso conflitto militare.
Il leader supremo degli studenti coranici, mullah Haibatullah Akhundzada, ha dovuto faticare per convincere i membri della Rahbari shura, il massimo organo della leadership, ad aderire al negoziato, la sua opzione strategica. Tra i suoi predecessori, quelli che hanno tentato la stessa strada sono finiti polverizzati. Lui invece oggi festeggia. Il comunicato che porta la sua firma rivendica «la vittoria collettiva dell’intera nazione di musulmani e mujaedin». L’accordo viene presentato come «un’intesa sulla fine dell’occupazione». Perché di questo si tratta, non di un vero e proprio accordo di pace, che arriverà se e quando i Talebani e il governo afghano troveranno un compromesso sulla spartizione del potere e, soprattutto, se sapranno rispondere alle richieste della società, che chiede sì pace, ma anche giustizia per i crimini passati.
PER ORA, IL GOVERNO DI KABUL e i Talebani continuano a litigare. Tra i punti previsti dall’accordo c’è il rilascio – entro il 10 marzo, giorno di inizio del dialogo intra-afghano – di circa 5.000 talebani dalle carceri governative, e di circa 1.000 detenuti nelle prigioni degli studenti coranici. Ma il consigliere per la sicurezza nazionale, Amdullah Mohib, ha già fatto sapere che del rilascio si parlerà durante i negoziati, non prima. E i toni di molti collaboratori del presidente Ashraf Ghani continuano a essere bellicosi. Prudente, invece, il segretario alla Difesa Usa, Mark Esper. Poco prima che a Doha l’inviato Khalilzad e mullah Baradar firmassero l’accordo tra Usa e Talebani, Esper era a Kabul, in compagnia del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, del presidente Ghani e del primo ministro Abdullah Abdullah.
TUTTI INSIEME per sottoscrivere la dichiarazione congiunta tra Washington e Kabul che anticipava i punti dell’accordo di Doha e con cui gli americani assicurano che continueranno a sostenere il governo e le forze di sicurezza afghane. Oltre a dire di essere pronti «ad annullare l’accordo» di Doha, se non verranno rispettati gli impegni. Un modo per rassicurare Kabul. E per mostrare un volto minaccioso ai Talebani, che però hanno smesso di crederci da tempo.
* Fonte: Giuliano Battiston, il manifesto[1]
ph by isafmedia / CC BY (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2020/03/prove-di-pace-in-afghanistan-accordo-per-un-ritiro-usa-entro-14-mesi/
Copyright ©2024 Diritti Globali unless otherwise noted.