Il virus del profitto. Come siamo arrivati all’emergenza sanitaria

Il virus del profitto. Come siamo arrivati all’emergenza sanitaria

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È un mondo alla rovescia quello in cui si svuota la sanità pubblica, anno dopo anno, depauperandone e frustrandone le professionalità, spostando risorse sul privato e producendo norme che lo favoriscono a discapito degli interessi di cittadini, collettività e bilanci pubblici. Ma pure svilendo nel sistema pubblico le finalità stabilite dalla Costituzione: un processo che ha una simbolica tappa nel cambiamento di nome, e dunque di indirizzo, da Unità Sanitarie Locali in Aziende Sanitarie Locali (dicembre 1992, governo Amato, coalizione DC-PSI-PSDI-PLI, ministro della Sanità Francesco De Lorenzo).

A quarant’anni dall’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, nonostante l’aumento delle patologie e delle cronicità, le cifre fotografano la riduzione dei servizi sanitari: dalle 695 USL si è arrivati alle 101 ASL attuali; i posti letto in ospedale, sommando pubblici e privati, erano 530 mila nel 1981, sono progressivamente scesi a circa 365 mila nel 1992, a 245 mila nel 2010, a 215 mila nel 2016; i medici e pediatri di base sono calati da 64 mila agli attuali 53 mila (Nebo Ricerche PA, Rapporto Sanità 2018 – 40 anni del Servizio Sanitario Nazionale, a cura di Natalia Buzzi e Iolanda Mozzetta, in https://www.programmazionesanitaria.it).

Sempre le cifre ci dicono che, particolarmente negli anni più recenti, i cittadini che rinunciano a curarsi sono milioni, addirittura 12, per lo più per cause economiche e grazie al costo di ticket e superticket. Balzelli che, oltre a scoraggiare nel fruire di prestazioni, spostano utenza verso il privato, i cui servizi in quel modo arrivano talvolta a costare meno e senza liste di attesa. Questo processo (ma meglio sarebbe definirlo una strategia, perseguita con determinazione nel corso degli anni e da governi diversi) ha già spostato un terzo della spesa sanitaria: oltre 40 miliardi l’anno vanno al privato.

Anche nel campo della salute l’Italia mostra profonde diseguaglianze, riconosciute dallo stesso ministero. Fanno la differenza anzitutto le condizioni economiche, ma assieme il titolo di studio, l’area geografica, l’età e il genere. Aspettativa di vita, sua qualità in età avanzata e mortalità dipendono da variabili economiche e di ceto sociale. Differenze di classe, insomma. Che determinano la distanza tra la vita e la morte non solo nei Sud del mondo ma anche nelle nostre periferie. Lo sottolinea con un’immagine efficace l’epidemiologo Giuseppe Costa: «A Torino chi sale sul tram che attraversa la città dalla collina alto-borghese all’estremo est per andare nella barriera operaia di Vallette all’estremo nord-ovest vede salire dei passeggeri che perdono mezzo anno di speranza di vita ogni chilometro che percorre: più di quattro anni di aspettativa di vita separano i benestanti della collina dagli abitanti degli isolati più poveri del quartiere Vallette» (Giuseppe Costa, Cosa sappiamo della salute disuguale in Italia?, in http://www.sossanita.it/doc/2017_06_cosa-sappiamo-salute-disuguale-ITA.pdf, 2017).

* dall’introduzione di Sergio Segio al 16° Rapporto sui diritti globali “Un mondo alla rovescia”, Ediesse editore. L’introduzione è liberamente scaricabile qui



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