Il business che non va mai in crisi: boom del commercio di armi nel mondo
Le vendite di armi sono in aumento nel mondo: nel periodo 2015-2019 sono cresciute del 5,5% rispetto agli anni 2010-2014, dato che conferma una costante progressione dal 2003 (in cifre assolute, nel 2017 le spese militari mondiali sono state di 1739 miliardi di dollari, il «fardello militare mondiale» è pari al 2,2% del pil mondiale, cioè 230 dollari per abitante della terra).
SONO I DATI DEL SIPRI, lo Stockholm International Peace Research Insitute, istituto indipendente nato nel 1966 su iniziativa del Parlamento svedese per commemorare i 150 anni di pace del paese e che si è specializzato nelle ricerche sui conflitti, le armi e il loro controllo, il disarmo, segnato all’inizio dall’attività di Alva Myrdal, scrittrice e diplomatica, Premio Nobel della Pace nel 1982 e del marito, Gunnar Myrdal, economista Premio della Banca di Svezia nel 1974.
Il primo paese esportatore sono gli Stati uniti, che assicurano il 36% del mercato, seguiti dalla Russia (21%, ma con vendite in calo del 18%) e dalla Francia, che passa al terzo posto, ma distanziata dai primi due, con il 7,9% (nel periodo 2010-2014 era al quinto posto, con una parte del 4,8%). Seguono la Germania (5,8%) e la Cina (5,5%).
GLI USA SONO ANCHE il primo paese per spese militari, 610 miliardi di dollari nel 2017, pari a un terzo del totale mondiale. I principali acquirenti di armi per il periodo 2015-2019 si trovano in Medioriente, che assorbe ormai il 35% degli acquisti mondiali, con un aumento spettacolare negli ultimi 5 anni del 61%. In questa regione c’è il primo importatore al mondo: l’Arabia saudita, che ha aumentato gli acquisti in 5 anni del 130% e ha rubato il primato dell’import all’India. È il prezzo della guerra in Yemen, che ha portato l’Arabia saudita ad assorbire il 12% dell’import mondiale di armi, sorpassando l’India (9,2%).
Solo la Germania nel 2019 ha messo un embargo nella vendita di armi ai sauditi, dopo l’uccisione del giornalista Jamal Khassogi il 2 ottobre 2018: la conseguenza è stato un calo delle vendite del gruppo franco-tedesco Airbus nel settore Difesa e Spazio, che sono state pagate con 2362 posti di lavoro in meno in Francia e in Germania.
LA GRAN BRETAGNA, malgrado alcune dichiarazioni – il governo ha espresso «ampia preoccupazione» per la guerra in Yemen – ha poi aumentato l’export di armi verso l’Arabia saudita, missili e blindati, e ora fornisce a questo paese del Golfo il 13% delle sue importazioni. La Francia copre il 4,3% dell’import dell’Arabia saudita, soprattutto con blindati, mentre Riyad si fornisce principalmente negli Usa (73%).
Il terzo importatore di armi al mondo è l’Egitto (5,8% del mercato). Il 35% di questi armamenti sono esportati dalla Francia (che aspetta conferma dell’ordinazione di 12 Rafale), una percentuale un po’ in calo perché Il Cairo vuole diversificare i suoi fornitori, il generale al Sisi si rivolge anche ad altri europei per le fregate, l’Italia con Fincantieri e la Germania con ThyssenKrupp Marine System. L’Australia è il quarto importatore di armi e la Cina il quinto. Ma Pechino è anche un importante esportatore, il quinto al mondo.
IL LEGAME TRA EXPORT e «indipendenza militare» è del resto uno degli argomenti con i quali in Francia viene giustificata la vendita di armi: secondo Hervé Guillou, ceo di Naval Group (che vende sottomarini a Brasile e India, e fregate a Egitto, Malesia ed Emirati), «nessun paese europeo è in grado di mantenere la competitività industriale nel campo della difesa basandosi soltanto sul mercato interno». Quindi deve esportare, per assicurare la «difesa» del proprio paese (tra Naval Group, Airbus, Safran e Thales, in Francia sono 200mila posti di lavoro nell’industria delle armi). La Francia ha trovato un buon cliente nel Qatar, che compra a Parigi il 14% delle importazioni di armi. IL Qatar ha ordinato 36 Rafale, caccia prodotti da Dassault Aviation, che ha come principali mercati esteri l’Egitto e l’India (New Dehli importa dalla Francia il 14% dei suoi armamenti).
I DATI DELL’IMPORT di India e Pakistan sono in calo (rispettivamente -32% e -39%), non per una svolta pacifista nei due paesi nucleari, ma perché intendono produrre armi a casa propria. Le prime dieci industrie che esportano armi sono statunitensi (52% del totale).
* Fonte: Anna Maria Merlo, il manifesto
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