by Orsola Casagrande * | 7 Marzo 2020 7:50
L’Italia è all’ottavo posto tra i primi dieci esportatori mondiali di maggiori sistemi d’arma (mezzi corazzati, navi, aeromobili, artiglieria, eccetera) e al secondo nell’ambito delle armi piccole e leggere (pistole, rivoltelle, fucili, mitra, mitragliatrici, lanciarazzi). Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo (IRIAD), fa il quadro di cosa vende l’Italia e dove lo vende e ricorda che i big del settore sono Leonardo (ex Finmeccanica) col 67% dell’export, la RWM (produttrice delle note bombe MK vendute all’Arabia Saudita per la guerra nello Yemen), la MBDA, la IVECO Defence Vehicles, la Rheinmetall Italia, nonché la Beretta.
Redazione Diritti Globali: Partiamo da una fotografia dell’Italia “armata”: quanto e cosa si produce? Dove si vende?
Maurizio Simoncelli: L’Italia è all’ottavo posto tra i primi dieci esportatori mondiali di maggiori sistemi d’arma (mezzi corazzati, navi, aeromobili, artiglieria e così via.) e al secondo nell’ambito delle armi piccole e leggere (pistole, rivoltelle, fucili, mitra, mitragliatrici, lanciarazzi, eccetera). Se negli anni passati l’export militare italiano si aggirava mediamente sui 3-4 miliardi di euro, nell’ultimo triennio la media è salita a 10, grazie all’export indirizzato prevalentemente verso Paesi extra UE ed extra NATO (72,8% nel 2018), in particolare verso l’area Medio Oriente-Nord Africa (nel triennio 2016-2018 52% in media), cioè proprio verso quelle aree di forte instabilità o di aperto conflitto come l’Egitto, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e altri.
Nel 2018 abbiamo esportato 459 milioni per la categoria “Bombe, siluri, razzi, missili e accessori”, 205 milioni per la categoria “Apparecchiature per la direzione del tiro”, 210 milioni per la categoria “Veicoli terrestri”, 2,6 miliardi per la categoria “Aeromobili”, 128 milioni per la categoria “Apparecchiature elettroniche”, 103 milioni per la categoria “Tecnologie”, 38 milioni per la categoria “Servizi” (assistenza tecnica, manutenzione, corsi), 146 milioni per la categoria “Ricambi”. I big del settore sono Leonardo (ex Finmeccanica) col 67% dell’export, la RWM (produttrice delle note bombe MK vendute all’Arabia Saudita per la guerra nello Yemen), la MBDA, la IVECO Defence Vehicles, la Rheinmetall Italia, nonché la Beretta.
RDG: E che materiali di armamento invece compra l’Italia?
MS: Importiamo soprattutto dagli Stati Uniti (nel 2018 quasi il 66%), nonché dalla Svizzera (nel 2018 il 17%) e in misura minore da altri per un totale di circa 637 milioni di euro nel 2018 e di 2,2 miliardi di euro nell’ultimo triennio 2016-2018. Va ricordato che una parte delle importazioni (140 milioni di euro) è temporanea, cioè riguarda materiali che vengono installati, modificati, assemblati oppure presi per manutenzione, riparazione, revisione, fiere, eccetera.
Il valore dei materiali di armamento importati definitivamente in Italia nel 2018 è sui 497 milioni di euro, di cui 224 milioni per munizioni, 58 milioni per apparecchiature per la direzione del tiro, 45 milioni per esplosivi e combustibili militari, 34 milioni per armi di calibro non superiore a 12,7 mm, 24 milioni per apparecchiature per la visione di immagini, 22 milioni per bombe, siluri, razzi, missili e accessori; 1,8 milione di tecnologie e poco più di 100 mila euro per servizi e ricambi.
RDG: Cresce in particolare nell’area del Mediterraneo il mercato delle armi piccole e leggere (Small Arms and Light Weapons, SALW). Contrariamente a quello che si pensa, non sono meno pericolose di missili e bombe. Anzi, per il segretario dell’ONU sono «le vere armi di distruzioni di masse». L’Italia è seconda tra i produttori. Come si spostano queste armi, chi le vende, chi le compra? Quali sono le rotte che seguono?
MS: Come Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo abbiamo recentemente concluso una ricerca condotta con il contributo del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione proprio sul traffico illecito di armi piccole e leggere nel Mediterraneo allargato (che comprende, oltre ai Paesi rivieraschi, anche i Balcani, il Maghreb, il Medio Oriente e il Corno d’Africa). Dalla ricerca emerge che il 90% delle vittime dei conflitti seguenti alla Seconda guerra mondiale è causato dalle SALW e che i civili ne rappresentano il 70-80%; il commercio internazionale di SALW tra il 1996 e il 2016 ha visto una crescita continua, coinvolgendo sempre più Paesi e mostrando valori sempre più elevati. In particolare, nel mondo è in circolazione oltre un miliardo di SALW, di cui due terzi nelle mani di attori non statali e civili. Per di più, la maggior parte delle armi illegali nasce come una partita di armi legali regolarmente venduta sul mercato internazionale ed è costituita da pistole, ben il 34% delle armi sequestrate. I dati a disposizione ci fanno sapere che i principali esportatori sono nell’ordine Stati Uniti, Italia, Brasile (oltre i 500 milioni di dollari annui), seguiti da Germania, Corea del Sud, Austria, Federazione Russa, Repubblica Ceca, Turchia, Belgio, Svizzera, Francia, Croazia, Israele (da 100 a 499 milioni di dollari annui). Infine, e questo è molto importante, sul piano globale risulta che le armi di piccolo calibro provengono principalmente dagli Stati Uniti, mentre le armi leggere arrivano soprattutto da territori in conflitto.
La maggior parte dei produttori di SALW è localizzata in Occidente. I crescenti flussi si dirigono verso l’Africa e il Medio Oriente. La dimensione tipica del traffico clandestino di armi piccole e leggere si svolge prevalentemente su scala regionale o locale, attraverso forniture di dimensioni contenute, ma continue (il cosiddetto ant trade) che provocano nel tempo un accumulo di armi e di munizioni. Gli acquirenti sono soprattutto gruppi criminali, terroristi, milizie armate non statali, fazioni ribelli o forze rivoluzionarie (soprattutto in contesti di conflitto armato).
Sono tre le rotte principali all’interno del Mediterraneo allargato. La prima, la cosiddetta rotta balcanica, dai Balcani tramite l’Italia, la Croazia e la Slovenia, raggiunge l’Europa occidentale (Francia, Germania, Grecia, Olanda, Irlanda, Spagna), ma anche l’Africa e il Medio Oriente, passando dai Paesi dell’Europa meridionale. La seconda, la rotta orientale, parte dagli immensi depositi dei Paesi dell’ex URSS e dall’Europa dell’Est puntando tradizionalmente verso l’Africa, ma recentemente anche verso l’Europa occidentale. La terza, definita infra-MENA (Middle East-North Africa), rappresenta un mercato prettamente interregionale, che dal Nord Africa, in particolare dalla Libia, distribuisce armi negli Stati confinanti, in Medio Oriente, e, in minor misura, in Europa.
RDG: Deep web e dark web: Cosa sono e perché sono pericolosi?
Il deep web è formato da quei siti in Internet che non sono indicizzati sui motori di ricerca ma comunque raggiungibili dai classici browser per la navigazione, mentre il dark web non è raggiungibile tramite i normali motori di ricerca, ma solo attraverso quelli che non lasciano traccia relative all’identificazione dell’utente. L’offerta di armi vendute nel dark web (sia nuove sia usate, solitamente rubate) è molteplice: dalle più comuni armi da fuoco come pistole semi-automatiche, revolver, mitra, fucili fino ad armi militari, come granate e fucili d’assalto. È importante evidenziare che le pistole rappresentano l’84% delle armi in vendita online, quindi probabilmente destinate più a delinquenza locale.
I venditori di armi da fuoco nel dark web si concentrano concentrati soprattutto negli Stati Uniti con il 59,9%, seguiti dall’Europa con il 25,1%, con Danimarca e Germania in testa. L’83,5% delle inserzioni online proviene dagli Stati Uniti e dai Paesi che aderiscono all’Area Schengen di libero scambio dell’Unione Europea. Le offerte arrivano spesso tramite i social network, mentre i pagamenti si realizzano per mezzo delle cryptovalute e le consegne avvengono tramite posta.
Appare, inoltre, una prossima minaccia rappresentata dalle stampanti 3D, che sono in grado per ora di realizzare solo armi in materiale sintetico non idoneo a sostenere l’esplosione di proiettili, una specie di repliche inoffensive. Un sito statunitense, Defcad.com della Defense Distributed, consente di scaricare i file per la stampa 3D di diverse armi, della pistola Liberator monocolpo, in grado di sparare un proiettile da 9 mm, ma anche del fucile semiautomatico AR-15, del fucile d’assalto VZ 58 e della pistola Beretta 9 mm. Messo online nel 2013, il file per la stampa della Liberator venne scaricato 100 mila volte in due giorni, prima che il Dipartimento di Stato statunitense non chiedesse la rimozione dei file in quanto contrari all’Arms Export Control Act del 1976. A oggi, occorre registrarsi nel sito per poter scaricare tali file. Nel momento in cui lo sviluppo tecnologico permetterà prossimamente di realizzare stampe con materiali più resistenti, tali armi potranno essere agevolmente realizzate nella versione offensiva. Per di più, non hanno un numero di matricola e, pertanto, non è possibile tracciarle, non hanno elementi metallici e di conseguenza non sono rilevabili attraverso metal detector: ci si potrebbe trovare di fronte a una proliferazione di SALW incontrollabile.
RDG: Come contrastare il fenomeno della vendita illecita a livello internazionale? Che strumenti ci sono? Sono sufficienti? Che si potrebbe fare di più?
MS: Le iniziative internazionali volte a contrastare il fenomeno sono numerose: si va dal Protocollo contro la fabbricazione e il traffico illecito di armi da fuoco, loro parti e componenti del 2001 al Programma ONU d’azione per prevenire, combattere e sradicare il commercio illecito di armi leggere e di piccolo calibro dello stesso anno, all’International Tracing Instrument 2005 sino al Trattato sul Commercio di Armi (Arms Trade Treaty) del 2014. Dalla ricerca emergono anche le difficoltà di molti Paesi nell’attuare operativamente quanto concordato, ad esempio, per la distruzione del surplus, per le operazioni di confisca di armi o per il loro tracciamento. Anche l’Unione Europea ha cercato di adottare norme e misure per contrastare il fenomeno, tra cui la Roadmap for a sustainable solution to the illegal possession, misuse and trafficking of Small Arms and Light Weapons in the Western Balkans entro il 2024.
Le indicazioni operative per contrastare il fenomeno sono numerose e possiamo ricordare la necessità di sostenere le iniziative internazionali di cooperazione, tese a raccogliere dati, alla tracciatura delle armi e a monitorare ogni transazione, il rafforzamento dei progetti di assistenza a Paesi terzi, nonché il potenziamento dell’ATT sia per coinvolgere importanti Stati non firmatari sia per stringere le larghe maglie di questo trattato. In questo senso, è fondamentale una stretta cooperazione USA-UE. Non va trascurata l’alta rischiosità di forniture di SALW ad “attori non statali”, cioè ai gruppi armati operanti in situazioni come l’Ucraina, la Libia o la Siria, arsenali di cui poi non vi è più nessun controllo e alcuna certezza della destinazione finale.
RDG: L’Archivio Disarmo ha realizzato dossier sui droni militari. Qual è la situazione rispetto al loro utilizzo in Italia?
MS: I droni militari sono aeromobili guidati a distanza da un equipaggio, che utilizza radar e satelliti per la sorveglianza, la ricognizione, l’identificazione ed eventualmente anche per l’attacco in zone dove le forze armate del Paese operante non sono presenti sul terreno per vari motivi (lontananza, eccessivo pericolo, eccetera). L’attacco con droni non pone alcun rischio ovviamente per l’equipaggio, mentre ne crea molti altri per la popolazione locale, dato che si ha una quota di cosiddetti danni collaterali non trascurabile. Il cosiddetto “intervento chirurgico” è solo il frutto della propaganda, dato che neppure i servizi segreti degli Stati Uniti, cioè il Paese che più li sta utilizzando sulla scena mondiale, hanno mostrato di sapere il numero esatto delle vittime civili (oscillando in un rapporto ufficiale su stime del 3% o 4%), mentre fonti indipendenti, come il Bureau of Investigative Journalism BIJ, valutano cifre superiori (10-13%) o addirittura il 75%, secondo il Pakistan BodyCount.
L’Italia da anni è dotata di droni militari di produzione statunitense come l’MQ-1C Predator A+ e l’MQ-9 Predator B (Reaper), velivoli fabbricati della statunitense General Atomics, presso il 28° Gruppo le “Streghe” di stanza presso la base di Amendola (FG) e sono stati già utilizzati in Iraq, Afghanistan, Libia, Gibuti e Somalia, Kosovo, Siria- Iraq, Mediterraneo centrale. Anche se a suo tempo furono acquistati solo per operazioni di sorveglianza, ricognizione e identificazione (non aggressive), successivamente è stato richiesto agli USA il kit di armamento, concesso da un paio di anni. Non ci risulta che i droni italiani siano stati armati, ma è sicuro che partono missioni di droni militari statunitensi dalla base siciliana di Sigonella; nulla si conosce pubblicamente relativamente al teatro operativo e alla tipologia di missioni. Quindi non si sa se l’Italia dà l’appoggio a missioni di attacco con vittime civili innocenti e sulle nostre eventuali responsabilità in merito.
RDG: Un’ultima questione, Macron ha annunciato la creazione di una forza spaziale. Che considerazioni le suscita questa dichiarazione?
MS: In questi ultimi anni nelle relazioni internazionali si è andata affermando una politica di potenza al punto che colloqui, trattative e accordi sulle armi convenzionali e di distruzione di massa sono passati in secondo piano. La fine del Trattato INF sulle forze nucleari intermedie tra Stati Uniti (che lo hanno denunciato per primi) e Russia ne è l’esempio più evidente, come anche la decisione di alcuni Paesi occidentali di attaccare la Libia di Gheddafi precipitando il Paese nel caos rappresentano l’unilateralismo aggressivo contemporaneo.
La dichiarazione di voler creare una forza spaziale da parte di Macron segue quella del presidente Trump del dicembre 2018 per una Space Force, nuova sesta branca delle forze armate statunitensi: si sta puntando alla militarizzazione dello spazio, che diviene così la nuova frontiera della corsa ai nuovi armamenti dove droni e armi autonome già fanno la loro parte, coinvolgendo inevitabilmente in analoghi sviluppi tecnologici altri Paesi come la Russia e la Cina in primis, inoltre minacciando in prospettiva il Trattato sull’Outer Space del 1967.
Va fatta, però, anche un’altra considerazione sull’iniziativa francese, che evidenzia ancora una volta l’unilateralismo dei partner europei – e non solo di Parigi – nel settore della difesa, al punto che parlare di difesa comune appare un vuoto esercizio di retorica. Al massimo, in questo settore l’UE riesce ad approvare piani di finanziamento delle industrie belliche, ma non a concretizzare una politica estera e della difesa comune, condizionata com’è dagli imperanti sovranismi non solo degli euroscettici dichiarati, ma anche dei Paesi che al contrario si dichiarano di fede comunitaria.
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Maurizio Simoncelli: è cofondatore e vicepresidente del Consiglio direttivo dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo – IRIAD (Roma), collabora come docente presso il Master “Nuovi orizzonti di cooperazione e diritto internazionale” presso la Pontificia Università Lateranense ed è direttore editoriale del mensile on line “IRIAD Review”.
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* Intervista pubblicata nel 17° Rapporto Diritti Globali – “Cambiare il sistema”, a cura di Associazione Società INformazione[1], Ediesse editore
Il volume, in formato cartaceo può essere acquistato anche online: qui[2]
è disponibile anche in formato digitale (epub): acquistalo qui [3]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2020/03/armi-la-prossima-tappa-e-la-militarizzazione-dello-spazio-intervista-a-maurizio-simoncelli/
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