Truppe turche in marcia su Idlib, allarme ONU: 900mila nuovi sfollati

by Chiara Cruciati * | 20 Febbraio 2020 11:37

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Dalla Siria si continuerebbe a fuggire se ci fosse un posto dove andare. A nove anni dallo scoppio della guerra civile, con quasi l’intero territorio tornato sotto il controllo del governo di Damasco e un conflitto dato per terminato, quasi un milione di siriani sono fuggiti dai loro villaggi dal primo dicembre scorso.

In due mesi e mezzo – i dati dell’Ocha, l’agenzia umanitaria dell’Onu, arrivano al 17 febbraio – 900mila persone sono scappate da Idlib, la regione nord-occidentale da anni hub jihadista amministrato da al Qaeda e ricettacolo dei gruppi allontanati dal resto del paese e da mesi teatro di scontri durissimi tra Damasco e gruppi islamisti pro-Turchia.

«La crisi nel nord-ovest della Siria ha raggiunto un nuovo livello di orrore – scriveva due giorni fa Ocha – Riteniamo che 900mila persone siano sfollate dal primo dicembre, per la stragrande maggioranza donne e bambini. Sono traumatizzati e costretti a dormire all’aperto con temperature gelide perché i campi sono pieni. Le madri bruciano la plastica per scaldare i figli. I neonati stanno morendo di freddo».

E intanto piovono bombe russo-siriane e missili islamisti su scuole, moschee, mercati. La crisi è esplosa con tutta la sua virulenza, le malattie si diffondono, le infrastrutture crollano. È la Siria della «guerra finita».

È in questa situazione di morte – con sfollati che dormono tra la neve, sotto gli alberi, alla ricerca di un rifugio che per la maggior parte di loro non esiste – che il presidente turco Erdogan ha ieri minacciato di alzare ancora il livello dello scontro.

Presente in Siria con le proprie truppe dal 2016, con un’invasione che viola il diritto internazionale, e dal 2011 con gruppi finanziati e addestrati, Erdogan ha dato ieri per «imminente un’operazione a Idlib» dopo il fallimento dell’ultimo round negoziale con la Russia: «Stiamo muovendo i nostri ultimi avvertimenti. Possiamo apparire all’improvviso in piena notte. L’operazione a Idlib è solo questione di tempo», ha detto rivolto a Damasco se il governo di Assad non si ritirerà oltre le posizioni militari turche.

Ovvero le 12 postazioni create in questi ultimi anni in territorio siriano, riempite nelle ultime tre settimane di truppe e mezzi blindati, con l’obiettivo di creare un corridoio lungo il confine turco-siriano da annettere ufficiosamente. Erdogan parla come se ormai il nord della Siria fosse tutto suo: «Non lasceremo Idlib al regime (siriano), che non capisce la nostra determinazione, e a chi lo incoraggia».

Immediata la reazione di «chi lo incoraggia», ovvero del principale sponsor siriano, la Russia, che ha definito «un’operazione contro le legittime autorità della Repubblica siriana il peggiore scenario». Mosca finge di far buon viso a cattivo gioco: ieri l’agenzia iraniana Irna riportava la proposta del Cremlino di un vertice a Teheran per il prossimo mese tra russi, turchi, iraniani.

Un’altra Astana, visto l’ormai palese fallimento del vecchio accordo siglato in Kazakistan. Quell’accordo era inevitabilmente destinato a schiantarsi a Idlib, definita nel settembre 2018 «de-escalation zone», ma che di de-escalation non ha conosciuto nemmeno l’ombra.

Ogni cessate il fuoco è fallito perché Idlib vale moltissimo. Per Damasco è l’ultimo passo per completare il puzzle in cui si è frantumato il paese; per Mosca la prova dell’efficacia della sua diplomazia mediorientale; per Ankara il cuore dell’«emirato» sunnita che sogna di creare per garantirsi un piede nella nazione vicina.

Stesso obiettivo perseguito nel Rojava, dove l’occupazione militare è entrata nel suo quinto mese e, riporta l’attivista italiano Leopoldo Odelli da Kobane, insiste nella sua violenza: «Le dichiarazioni di cessate il fuoco non sono mai state rispettate, in questi mesi continui scontri sono avvenuti nei villaggi intorno a Tel Temer, Ain Issa e Gire Spi. Le previsioni sono che in pochi mesi possa ricominciare un conflitto ad alta intensità, il passo successivo della campagna di occupazione turca sarebbe proprio Kobane: da alcune settimane diversi mezzi e uomini dell’esercito turco sono stati mandati al confine con la Siria, di fronte a Kobane».

Eppure è verso il Rojava che si dirigono molti degli sfollati da Idlib: «La Federazione della Siria del Nord – continua Odelli – sta cercando una sistemazione degna per queste famiglie ma non senza difficoltà: gli aiuti arrivati da fonti esterne sono pressoché nulli e l’occupazione ha provocato una pesante inflazione e la svalutazione della lira siriana ha fatto triplicare il prezzo dei beni di prima necessità. L’autogoverno ha alzato i salari e cercato di calmierare ma rimane un grandissimo problema».

A Idlib si schianta anche quella che ieri avrebbe dovuto essere la notizia della normalizzazione: dopo otto anni il primo volo commerciale è atterrato all’aeroporto di Aleppo, riaperto al traffico nazionale. E a giorni è prevista la riapertura della autostrada M5 tra Aleppo e Damasco. Per Assad la miglior pubblicità di una rinascita che non c’è, ma Erdogan ha altri piani.

* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto[1]

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